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L'inferno in Maremma |
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Tellini
Pistoia (1990)
Copertina di Simona Falsini.
Edizione, in nuova veste grafica, di «Quando l'inferno
era in Maremma», Tellini, Pistoia (1979)
pag. 74
QUANDO
L'INFERNO ERA IN MAREMMA
e
nell'Ottocento la Maremma fu amara — come in effetti fu
— nel secolo precedente vi lascio immaginare l'aria che
vi spirava.
Intanto, nel 1715, cominciarono le dolenti note con
una di quelle carestie che difficilmente si dimenticano.
La fame non risparmiò nessun paese del Grossetano e i
becchini — loro malgrado — ebbero molto da fare.
Poi ci fu la guerra degli Spagnoli per la conquista
di Orbetello e dell'Argentario: un vero flagello. Le
campagne furono totalmente devastate, le abitazioni
contadine demolite o date alle fiamme. La miseria più
nera tornò a regnare sovrana. I governanti del tempo
cercarono di correre ai ripari, ma con scarsi risultati.
Per giunta, quando la situazione pareva ormai lontana
dalla gravità iniziale, due nuove calamità si
susseguirono nel breve volger di un quinquennio, dando
il colpo di grazia alle disastrose condizioni economiche
e sociali dei maremmani.
A complicare le cose ci si misero prima le
cavallette, che sciamarono per lungo e per largo nella
pianura e nella collina, distruggendo ogni genere di
coltivazione. E questo accadde nel 1742. Quindi, nel
1747, e nel 1748, due gravi inondazioni seminarono il
terrore e la morte soprattutto nel territorio intorno a
Grosseto. Vi furono vittime fra i mandriani e i pastori;
ma la furia delle acque si accanì specialmente sui
greggi di pecore e sulle mandrie brade di buoi e di
cavalli. Decine di migliaia di capi di bestiame vennero
travolti e uccisi con un danno incalcolabile per il
patrimonio zootecnico maremmano.
Ne conseguì una nuova carestia che non doveva
essere l'ultima, né la più grave. Infatti, nel 1763, se
ne verificò un'altra di particolare asprezza e durata,
che si concluse, con ripercussioni disastrose sulle
condizioni di vita della povera gente, soltanto nel
1776, anno in cui la Maremma venne elevata a provincia
autonoma.
A tutto questo si deve naturalmente aggiungere che
nei mesi estivi infuriava la malaria. Vi scendevano —
poveracci — dal Casentino, dal Modenese, dal Pistoiese,
dal Marchigiano; e vi giungevano perfino dalla Corsica.
Pochi, però, tornavano alle loro case al termine delle
faccende agricole. Gran parte di questi poveri diavoli,
stremati dalla fatica, nutriti malamente, ospitati in
tuguri e capanne, costretti a trascorrere le poche ore
di riposo su giacigli di paglia come gli animali,
cadevano facilmente vittima delle perniciose e,
debilitati com'erano nel fisico, abbandonati a se
stessi, privi di ogni cura e assistenza, morivano a
decine in ogni angolo della Maremma. Le loro spoglie —
stando alle cronache del tempo — restavano dimenticate
in mezzo ai campi, sulle prode delle strade. Gli animali
randagi ne facevano scempio, tanto che, talvolta,
qualche viandante pietoso si premurava di seppellirle
sotto cumuli di grosse pietre, affinché né cani, né
cinghiali, né bestie di altro genere potessero
raggiungerle e farne spregio. Non pochi erano coloro che
perivano di morte violenta. Un litigio, uno screzio, un
dissapore e il grilletto dell'archibugio faceva partire
la carica mortale.
La Maremma Toscana nel Settecento di
Candeloro Giorgini, un libro di grande serietà e
ricchezza di notizie, riporta, fra gli altri elementi di
indagine storica e sociologica, anche una serie di
questi atti di violenza. Nel solo registro parrocchiale
di Magliano in Toscana, nel periodo compreso fra il 1725
e il 1765, ben quattro volte si trova l'annotazione:
«Ucciso da un'archibugiata».
Altro che amara, dunque, la Maremma di quel tempo!
Abitarvi, significava rischiare ogni momento la
vita in un vortice di circostanze avverse e letali che
andavano dalle guerre alle carestie, dalle inondazioni
alle invasioni di cavallette, dalla malaria alla
dilagante delinquenza, da condizioni di vita animalesche
alla mancanza di qualunque assistenza e tutela.
Del resto, si comprende subito in quale stato di
desolazione — a causa di tutti questi mali — si trovasse
la Maremma settecentesca se si pensa che la sua
popolazione stabile superava appena le trentamila unità
con la settantina di centri abitati di cui si componeva
e che andavano da Castagneto a Capalbio (estremo limite
della Maremma toscana); e se si considera che gli
abitanti delle località più vaste — in verità — si
aggiravano intorno alle duemila unità.
Per meglio puntualizzare l'inospitalità della
Maremma di quel tempo bastano, poi, i due seguenti
episodi.
Verso gli inizi del secolo, circa ottocento
mainotti, provenienti dall’isola di Morea nel
Peloponneso, ottenero asilo dal Granduca di Toscana.
Furono mandati nel Sovanese. Ebbero una discreta
quantità di terra, attrezzi da lavoro, bestiame e, sul
principio, anche una certa assistenza. Ebbene, nel 1718
il clima pestifero di quella località li aveva
completamente sterminati.
Un’altro tentativo di ripopolamento del territorio
di Sovana fu fatto intorno al 1739. Prese possesso di
quelle terre desolate una colonia di oltre milleduecento
Lorenesi. Anche costoro non furono risparmiati dal clima
inesorabile: dopo tre anni ne restarono soltanto un
terzo. Gli altri o erano stati uccisi dalle terzane o si
erano trasferiti in altri luoghi più ospitali.
Questa, a grandi linee, la Maremma del secoloXVIII.
Davvero — com’ebbe a dire Guelfo Civinini — una
«terra amara, dove terzane e perniciose ti sciagattavano
e ti schiantavano fior di gioventù…».
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