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I libri
La Cartagine della Maremma



Castro dalle origini alla distruzione


Scipioni Editore,
Sturmundrang 7
Roma (1990)

pag. 91

il 3 dicembre veniva comunicata allo Spinola la "completa demolitione" della città.
Nel desolato pianoro che — alla luce della sconcertante vicenda — si affacciava tragico sulle cupe depressioni del torrente Olpeta e del Fosso delle Monache, sembra che gli ultimi "becchini" della capitale farnesiana erigessero una colonna di marmo con la scritta: QUI FU CASTRO.
Ma di quella "fulminea" epigrafe, che rappresentava l'espressione estrema dell'ira papale nei confronti di una collettività d'infedeli, di eretici, di scomunicati per l'uccisione del Giarda, non si è trovata mai traccia né sui libri, né fra le poche testimonianze sottratte alle macerie e all'invadenza disordinata della vegetazione.
Una sola cosa sopravvisse, non lontano dal luogo del misfatto pontificio, là dove un crocevia aveva spalancato le sue braccia al viandante: un cippo con l'immagine di Cristo dipinta due secoli prima e lì collocata a invocare un sentimento religioso e una pace cristiana di cui Castro raramente improntò la sua vita, dilaniata come fu in ogni tempo dalle rivalità, dagli odi, dalle lotte fratricide e dalle guerre fra potentati che finirono col trascinarla nel vortice delle passioni più velenose e violente e col farla precipitare nell'abisso della perdizione.
Intorno a quel cippo, per iniziativa di Pio Baldaschi, sorsero prima una cappellina e un altare (1847); poi — nel 1870 — fu eretto il modesto Santuario che tuttora si vede e che già nel 1852 una commissione di parroci (Luigi Pasqualetti, Fabio Ziberi, Vincenzo Viti, Domenico Mascini) aveva pensato di costruire.
Soffiando negli Anni Venti del nostro secolo sul fuoco della fede popolare (e talvolta del bigottismo) il vescovo di Acquapendente Tranquillo Guarnieri, il suo delegato don Giuseppe Benigni e i vari curatori d'anime della zona fecero sì che nel territorio si sprigionasse — più ardente che nel passato — la grande fiamma della venerazione di quell'antica effigie, a detta dello Stendardi dispensatrice di cospicue grazie e di ripetuti miracoli.
Cosicché, le invitanti domeniche di giugno videro migliaia di pellegrini convergere — d'ogni dove — al piccolo tempio sperduto nelle campagne castrensi, recando nel cuore speranze — ai più negate — di vita meno grama e di sospirata serenità familiare.
Giunsero invece — di nuovo — i giorni del terrore, degli odi di classe, delle lotte fratricide, delle guerre sempre più disastrose.
E furono ancora una volta violenza, distruzione, desiderio di soppressione totale. Fu — ancora una volta — Castro. Che, dopo tre secoli dal suo olocausto, ha timidamente permesso al piccone — artefice del suo disgraziato destino — di farsi riesumare in esigue reliquie per dimostrarci quanto enorme sia stata la spietatezza e l'inesorabilità di chi — per essere il vicario di Cristo — avrebbe dovuto usare le sole, uniche armi a lui consentite: quelle dell'umiltà, della tolleranza e del perdono.