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I libri
Tiburzi



La leggenda della Maremma


Scipioni,
Valentano (VT) (1996)

Dipinto di copertina di Dino Petri.

Le foto riprodotte nel libro rappresentano alcuni momenti scenici del film "Tiburzi" di Paolo Benvenuti*.

pag. 70


Chi era più brigante?

a leggenda dice che fu lui, Tiburzi, a provocare quel colpo mortale. Per il tentativo che fece di estrarre dalla fondina la sua pistola. Per il timore che suscitò in qualcuno dei suoi segugi di essere ucciso. Ed è leggenda davvero. Perché tutti sanno, ormai, che la verità non fu quella. Perché a tutti è noto quale fu la verità.
La verità, ad esempio, è questa: che sembrano scomparsi alcuni documenti fondamentali per stabilire con esattezza come effettivamente si svolsero i fatti quella notte del 24 ottobre 1896, davanti alla porta delle Forane, nel fango del piccolo recinto dove Tiburzi cadde falciato alle gambe dal piombo dei carabinieri.
Oggi, la foto che l'Ulivi di Orbetello gli scattò l'indomani, domenica, sul far del giorno, è diventata una sorta di emblema di quella cruda pagina di storia maremmana che fu il brigantaggio.
La si vede dappertutto: nei bar, nelle trattorie, nei poderi, nei ristoranti.
Ed è incredibile che ciò avvenga, perché sono trascorsi cent'anni da quando fu eseguita. Un secolo. E la memoria del più famoso brigante della Maremma non solo non si è minimamente affievolita, ma è tornata viva come negli anni successivi alla sua scomparsa, quando nelle campagne il nome di Tiburzi risonava sulla bocca del bifolco che l'aveva imposto al più prestante dei suoi bovi, nelle aie s'improvvisavano ottave sulla sua lunga, terribile avventura, e i cantastorie facevano furore nelle fiere paesane cantando le ballate che gli avevano dedicato.
Anzi, più viva ancora di quei tempi amari della condizione contadina, dato che il giornalismo e l'editoria trattano frequentemente della sua vicenda, il cinema e la televisione ne rievocano le gesta (un film di Paolo Benvenuti è in procinto di essere diffuso sia dagli schermi televisivi che cinematografici) e i versi sono tornati a fiorire sulle labbra dei poeti per ricordare alle generazioni dell'era tecnologica – come fanno Mauro Chechi, Silvana Pampanini e Mario Olimpieri – non solo lui, le sue imprese, la sua contraddittoria esistenza di ribelle sociale, ma anche la realtà di un mondo che non poteva non partorire uomini resi indocili e vendicativi dall'ingiustizia e dall'arbitrio. Palmiro Nardi, il titolare della nota Trattoria "La Torre - Da Carla" di Capalbio, ripropone – durante il 1996 – il menu "Per ricordar Tiburzi", ovvero, com'egli ha detto, "il nostro canto, la nostra poesia, che non è scritta ma è cucinata. Come una volta e ricca di sapori, frutto e sapienza contadina delle antiche tradizioni"; e si sta prodigando per poter allestire, nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo, proprio in concomitanza con le iniziative tiburziane della Toscana e del Lazio, che potrebbero essere utilizzate anche in quella città, una mostra-esposizione dei prodotti tipici della Maremma.
L'Amministrazione Comunale di Orbetello programma un convegno a livello europeo sul fenomeno del brigantaggio. Ed altre manifestazioni di enti pubblici, quali spontanee, quali coordinate dal caninese "Centro di documentazione su Vulci e il territorio" sembrano ormai cosa certa.
E allora, per riprendere e concludere il discorso nel tono iniziale, ci deve pur essere una buona ragione se tutto questo accade; se la vita di un "volgare" brigante desta un così diffuso interesse sia nella gente comune, sia nei mass media che di tale interesse si rendono interpreti.
Una spiegazione può essere cercata e forse trovata in un ragionamento semplicissimo, elementare, che, tuttavia, dal punto di vista della verità storica, non fa una grinza; questa: Sì, è vero, il brigantaggio fu una piaga infetta sul corpo martoriato della Maremma, un bubbone difficile da estirpare.
Ma era forse migliore, nel suo spietato egoismo, nella sua costituzionale ingiustizia, nel suo intento vessatorio della povera gente, la società che lo produsse e che non fece nulla - proprio nulla - per creare le condizioni atte a impedirne la nascita e la propagazione?
Tiburzi, è vero, aveva molte vittime sulla coscienza; ma quanti omicidi, come minimo colposi, commise la nobiltà agraria della Penisola in genere e della Maremma in particolare sottoponendo le masse proletarie a lavori estenuanti, "da stelle a stelle", per una paga vergognosa, e alla mercè di caporaletti senza scrupoli che pretendevano rendimenti impossibili con la persuasione del nerbo?
Se leggiamo la storia e la cronaca del fenomeno che dilagò specialmente nelle terre papaline (la seconda più attendibile della prima) apprendiamo come l'uomo della strada, il bracciante, il campagnolo, il contadino, si schierassero spesso dalla parte dei fuorilegge, condividendo i motivi della loro ribellione.
Così accadde per Federigo Bobini, per Tommaso Rinaldini della Isabellona, per Stefano Pelloni, il "Passatore".
E così non poteva non accadere per Domenico Tiburzi, in una terra, come la Maremma, dove un pugno di ricchi blasonati, insensibili ai bisogni delle masse popolari, faceva di tutto per inasprire, anziché mitigare, l'amara esistenza dei deboli e dei diseredati. Ecco perché, forse, è ancora tanto vivo il ricordo di "Domenichino" nel microcosmo che lo vide imperversare per un quarto di secolo: un ricordo che, probabilmente, prendendo lui come punto di rifermento, è rivolto alla drammatica epopea dei maremmani in un mondo di latifondi e di paludi che li avvilì nella loro dignità di uomini, li straziò di sacrifici e di fatiche, li divorò ("Maremma devorat habitatores suos") con accanimento incessante e spietato.
Oggi, alla luce della verità storica, sono in molti a chiedersi, alludendo a Tiburzi e ai responsabili della società di allora, chi fosse più brigante. E tutti in grado di darsi una facile risposta.


*Film del quale Alfio Cavoli è stato il consulente storico.