LA PROTESTA SELVAGGIA E BRUTALE
i
tempi in cui accadono i fatti narrati nelle pagine che
seguiranno, la Maremma e il Viterbese sono due territori
desolati e squallidi, certamente fra i più inospitali
d'Italia. Il secondo, poi, più dei primo, anche se il
nome di questo – come scrive Iacopo Gelli – "incuteva
terrore ai funzionari statali, che vi erano mandati in
punizione, o perché inetti al loro compito".
L'indice di densità demografica nelle campagne è
bassissimo a causa della mancanza di agglomerati rurali,
di case contadine.
La maggioranza degli agricoltori e dei braccianti (che
rappresentano in media oltre i due terzi dell'intera
popolazione) vive miseramente nei paesi, dove, per
quanto riguarda le zone dell'Alto Lazio, le strade sono
"cloache sconce" e gli edifici ecclesiastici, realizzati
dal pontefice per l'ambizione di iscrivervi "il suo nome
e le armi della sua famiglia,... fanno contrasto con la
negligenza generale" (Ippolito Taine).
Si tratta di lavoratori condannati ad una perenne
disoccupazione, dal momento che i grandi proprietari
terrieri si guardano bene dal tirar fuori i capitali per
aumentare la produttività delle rispettive aziende.
Trionfa, insomma, la filosofia del detto "vacche magre,
padrone grasso ", in virtù della quale i signori
latifondisti, che sfruttano per l'alimentazione del loro
bestiame i pascoli naturali senza spendere una lira, si
arricchiscono sempre di più, a dispetto dei poveri
diavoli costretti a restare in attesa di una giornata di
salario per alleviare la fame e le sofferenze della
propria famiglia: aspirazione, purtroppo, destinata per
molti a restare un pio desiderio, dato che le faccende
stagionali vengono normalmente affidate a gruppi di
operai avventizi reclutati da mediatori privi di
scrupoli nelle montagne casentinesi, abruzzesi,
pistoiesi.
[…] La moralità […] risulta profondamente scalfita e in
alcuni Comuni sia del Grossetano che del Viterbese essa
è considerata "deplorevole". Tale si fa giudicare
soprattutto nelle zone montane di gran lunga più povere
e grame.
[…] A proposito dell'ignoranza, con riferimento agli
abitanti laziali, Montanelli e Nozza (Garibaldi, 1963)
affermano testualmente: "Il novanta per cento di loro
erano analfabeti, perché l'istruzione era stata
calorosamente scoraggiata dal governo del papa che ci
vedeva una malizia dei liberali per mettere a soqquadro
lo stato". E Armando Lodolini, dal canto suo (Storia
dell'Unità d'Italia, da Roma al Risorgimento, 1963),
dopo aver preso in esame il grado di istruzione delle
popolazioni rurali nello Stato Pontificio, così
conclude: "Il popolo dava nelle campagne quasi il cento
per cento all'analfabetismo". Precisando: Noi prendiamo
sempre l'alfabeto per misurare il grado sociale dei
tempi. E qui eravamo veramente a zero". Ma anche in
Maremma la situazione è tutt'altro che rosea. I registri
dei Comuni traboccano del termine "illetterato", a
testimoniare che la scuola è assai lontana dal
consentire a tutti di imparare almeno a leggere e a
scrivere. Né il governo italiano, sostituitosi a quello
lorenese, farà grandi sforzi per ovviare a questo grave
inconveniente.
[…] Esiste, poi, il flagello inarrestabile della malaria
che durante la stagione estiva miete vittime a
centinaia, costringendo la gente della pianura (ma non
certo i braccianti disoccupati) a rifugiarsi nei paesi
dell'alta collina e della montagna.
[…] Per i poveri disgraziati colpiti dal morbo spesso
non c'è scampo, anche a causa della gravissima carenza
di strutture ospedaliere.
[…] Alla malaria danno inoltre man forte, per rendere la
vita degli umili una vera tragedia, numerose altre
malattie, come gli attacchi agli organi respiratori
sotto molteplici forme, le gastriti, i dolori reumatici,
le dissenterie, i catarri intestinali, la clorosi, le
Infezioni cutanee, la pellagra, che si manifestano
soprattutto nelle zone montane per l'inadeguatezza del
vestiario, per motivi igienici e per l'alimentazione
basata in modo particolare sull'uso della farina di
granturco.
Ma se la situazione esistenziale delle popolazioni
stabili raggiunge a volte livelli di grande
drammaticità, non meno amara e aspra è quella dei
lavoratori avventizi.
Questi miseri braccianti, costretti dalla sorte a
trascorrere molti mesi dell'anno lontani dalla propria
famiglia, a sgobbare da un buio all'altro per una
mercede vergognosa, a non conoscere tregua, sono
fortunati se hanno la ventura di poter dividere con
altri lo spazio esiguo di una capanna, evitando di
alloggiare in grotte o case dirute, più esposte
all'umidità e all'inclemenza del tempo; e se riescono a
imbattersi (cosa decisamente improbabile, per non dire
impossibile) in persone oneste presso le quali
approvvigionarsi senza spendere molto di più del
necessario.
[…] Se a ciò si aggiunge che le acque, quasi sempre, non
sono bevibili, si comprende benissimo come un tal genere
di alimentazione abbia tutte le caratteristiche per
essere considerato contrario a qualsiasi norma igienica
e dietetica.
Il rispetto della verità impone tuttavia di dire che,
pur in mezzo alla disastrosa situazione generale, gli
operai avventizi del Grossetano hanno meno problemi di
quelli del Viterbese. "Sono meglio alloggiati – ci
informa il più volte citato autore dell'inchiesta
agraria – meglio nutriti; un pallido riflesso delle
costumanze toscane, assai più progredite e civili, si
sparge anche sopra di loro..."
Ebbene, se si tien conto che la Maremma grossetana è
ritenuta un inferno, una terra di punizione, un così
reciso giudizio dice chiaramente quale gravità presenti
lo stato d'indigenza e di arretratezza delle popolazioni
laziali. E spiega in maniera più limpida di qualunque
altra argomentazione come mai il brigantaggio
dell'Italia centrale tragga pressoché esclusivamente le
proprie origini dal territorio dello Stato Pontificio.
Qui, dove le finanze sono "un disastro,
l'amministrazione un caos, la giustizia un perpetuo
arbitrio"; dove i valori morali – lo dicono Montanelli e
Nozza – vengono "misurati sul numero dei paternoster e
delle avemmarie", più frequenti che altrove sono i casi
di scostumatezza, di prostituzione, di accattonaggio, di
abuso di pascolo, di furti campestri, di tagli boschivi,
di reati di sangue a causa del vino, del gioco e delle
gelosie amorose, di violenze personali. E quando
qualcuno, sia esso il privato cittadino o il
rappresentante della legge, osa interporsi col proposito
di esternare un ammonimento o di infliggere una
punizione, scatta la molla dell'intolleranza e dell'ira
che conduce facilmente all’omicidio e, per evitare la
galera, alla scelta angosciosa della latitanza alla
macchia.
Nascono, così, i vari Tiburzi e Biagini, Bettinelli e
Pastorini, Ansuini e Menichetti, imitati da una miriade
di altri disperati come loro. Ed è subito prepotenza,
sopraffazione, terrore: "la protesta selvaggia e brutale
– dirà in un suo discorso al Parlamento l'onorevole
Massari – della miseria contro le antiche e secolari
Ingiustizie".
Come la società li ha forgiati, così, ora, è costretta a
subirli. Sono esseri che hanno perduto ogni fiducia e
ogni speranza; che, attraverso i meandri di una vita
fatta di sacrifici e di rinunce, di soprusi e di
umiliazioni, hanno smarrito ogni disposizione alla
pazienza e alla sopportazione, alla clemenza e al
perdono: esseri accecati dalle tenebre dell'ignoranza,
istigati da quel coacervo di provocazioni che la loro
esistenza quotidiana è stata costretta a sopportare di
attimo in attimo, inclinati al male da un sistematico,
giornaliero esercizio di rudezza, di rabbia, di livore.
Nel loro animo non c'è che desiderio di rivalsa e di
vendetta. E lo appagano scagliandosi contro tutto e
contro tutti, finalmente guardati come ribelli
all'iniquità dell'ordine costituito, finalmente temuti.
Sono i padroni incontrastati delle campagne, i tirannici
"re della strada, re della foresta ", i violatori di
ogni legge civile e morale, capaci di fare, come si suoi
dire, il bello e il cattivo tempo.
La maggior parte di loro non va per il sottile,
accomunando nell'attività deleteria di cui è
protagonista, ricchi e poveri, innocenti e sospetti di
colpevolezza. Cosicché, prima o poi, cade sotto le
grinfie dei briganti di questa categoria chiunque
divenga oggetto di basse cupidigie, di diffidenze, di
antipatie. Siffatta specie di energumeni è irrefrenabile
e costituisce per i circondari in cui opera una vera
calamità. Ma è anche, per fortuna, la specie destinata a
non durare nel tempo, a pagare presto il fio delle
malefatte o nella tomba o dietro le sbarre di una casa
di pena.
Le popolazioni, infatti, la odiano, la ritengono un
pericolo costante per le persone e per le cose. E danno
spesso un contributo basilare per la sua eliminazione.
Sono innumerevoli i fuorilegge che vengono uccisi o
catturati grazie alle indicazioni di questo o di quello,
senza le quali le forze dell'ordine si rivelano spesso
impotenti, anche a causa degli organici assolutamente
irrisori e della scarsa conoscenza del territorio.
Purtroppo, per uno che sparisce dalla circolazione, ve
ne sono dieci pronti ad imbracciare la doppietta. Perché
la società è una fabbrica di delinquenti a getto
continuo, un mostro dalle fauci spalancate, intento a
schiumare la sua bava velenosa.
Basta scrutare un momento nelle plaghe cimine e teverine
per avere la preoccupante misura di questo fenomeno, per
vedere come masnade di teste matte si abbandonino senza
ritegno alle loro orge delittuose. Fra tutti, in una
vastissima zona tosco–laziale, c'è anche il brigante che
sa amministrare la propria latitanza e che riesce a
restare sulla cresta dell'onda per un quarto di secolo,
creandosi un'aureola di leggenda difficile da dissipare.
Si tratta di Domenico Tiburzi, il pastore di Cèllere,
passato alla storia locale come il "Re di Montauto", il
"Re del Lamone" il "Livellatore".
[…] Oggi, quando si pronuncia il suo nome, balza subito
alla mente la tragica situazione di una terra
dimenticata da Dio e dagli uomini, di una società
miseranda abbandonata nella sofferenza e nell'angoscia
dall'egoismo padronale, defraudata dei diritti più
elementari da governi inetti e insensibili a qualunque
istanza di giustizia e di umanità. E allora la sua
figura di fuorilegge appare come la conseguenza logica e
inevitabile di un così iniquo ordinamento sociale e
diventa oggetto di un giudizio che non può non
riconoscerle più di una scusante e non condannare
severamente le cause che l'hanno prodotta in dispregio
di ogni dettame cristiano e civile.
La presa di Domenico Tiburzi sulle masse operaie e
contadine trova in tutto questo la sua più convincente
motivazione: egli rappresenta, agli occhi degli umili e
dei diseredati, la ribellione che ciascuno di loro cova
inconsciamente nel proprio animo; egli è capace di
disubbidire a leggi che esigono ogni dovere negando ogni
diritto. Così, il brigante di Cèllere diventa una specie
di intrepido eroe popolare; e tutti ne magnificano le
gesta e ne decantano gli atti di generosità (veri o
supposti), innalzandolo a livelli mitici, ai quali
nessun altro personaggio della Maremma (checché se ne
dica) riuscirà mai ad assurgere. E nelle case, nelle
botteghe, nelle trattorie di campagna e di città a
distanza di quasi un secolo dalla tragica notte delle
"Forane ", sua ultima (ed unica) immagine, che lo rivela
come un povero cristo cinghialesco e affranto, appare
sempre più diffusamente sempre più in vista, a
testimoniare che non si è spento né il suo ricordo, né
quello della terra amara in cui la sua legge riprese
sostanza e consistenza.
[…] Questa, per sommi capi, è la valutazione che si può
fare del malandrinaggio maremmano, di quel fenomeno
delinquenziale che tanti riflessi negativi esercitò
sulle popolazioni costrette a subirlo.
Con la sua definitiva scomparsa, avvenuta agli inizi del
nostro secolo (XIX Secolo, n.d.c.), la "protesta
selvaggia e brutale" dei suoi protagonisti cade nel
silenzio. Fra poco (e lo vedremo nelle pagine
conclusive) comincerà la "protesta civile" delle masse
lavoratrici stanche di attendere che le promesse vengano
mantenute.
Proprio dal Comune di Manciano, uno dei territori
toscani più frequentati da Tiburzi e compagni, si
sprigionerà la scintilla di quelle lotte contadine che,
purtroppo, se si eccettua qualche modesta conquista
temporanea, non riusciranno a raggiungere gli scopi
desiderati, lasciando ancora una volta le categorie dei
braccianti e dei campagnoli nella loro miseria di
sempre, a reclamare invano giustizia, a rivendicare
inascoltate il diritto al lavoro e all'esistenza.