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I libri
I briganti dell'Ottocento
nella Maremma e nella Tuscia


Storia e leggenda

Aldo Sara Editore,
Collana "Le Antiche Dogane" n° 2
Roma (2001)

pag. 21


LA PROTESTA SELVAGGIA E BRUTALE

i tempi in cui accadono i fatti narrati nelle pagine che seguiranno, la Maremma e il Viterbese sono due territori desolati e squallidi, certamente fra i più inospitali d'Italia. Il secondo, poi, più dei primo, anche se il nome di questo – come scrive Iacopo Gelli – "incuteva terrore ai funzionari statali, che vi erano mandati in punizione, o perché inetti al loro compito".
L'indice di densità demografica nelle campagne è bassissimo a causa della mancanza di agglomerati rurali, di case contadine.
La maggioranza degli agricoltori e dei braccianti (che rappresentano in media oltre i due terzi dell'intera popolazione) vive miseramente nei paesi, dove, per quanto riguarda le zone dell'Alto Lazio, le strade sono "cloache sconce" e gli edifici ecclesiastici, realizzati dal pontefice per l'ambizione di iscrivervi "il suo nome e le armi della sua famiglia,... fanno contrasto con la negligenza generale" (Ippolito Taine).
Si tratta di lavoratori condannati ad una perenne disoccupazione, dal momento che i grandi proprietari terrieri si guardano bene dal tirar fuori i capitali per aumentare la produttività delle rispettive aziende. Trionfa, insomma, la filosofia del detto "vacche magre, padrone grasso ", in virtù della quale i signori latifondisti, che sfruttano per l'alimentazione del loro bestiame i pascoli naturali senza spendere una lira, si arricchiscono sempre di più, a dispetto dei poveri diavoli costretti a restare in attesa di una giornata di salario per alleviare la fame e le sofferenze della propria famiglia: aspirazione, purtroppo, destinata per molti a restare un pio desiderio, dato che le faccende stagionali vengono normalmente affidate a gruppi di operai avventizi reclutati da mediatori privi di scrupoli nelle montagne casentinesi, abruzzesi, pistoiesi.
[…] La moralità […] risulta profondamente scalfita e in alcuni Comuni sia del Grossetano che del Viterbese essa è considerata "deplorevole". Tale si fa giudicare soprattutto nelle zone montane di gran lunga più povere e grame.
[…] A proposito dell'ignoranza, con riferimento agli abitanti laziali, Montanelli e Nozza (Garibaldi, 1963) affermano testualmente: "Il novanta per cento di loro erano analfabeti, perché l'istruzione era stata calorosamente scoraggiata dal governo del papa che ci vedeva una malizia dei liberali per mettere a soqquadro lo stato". E Armando Lodolini, dal canto suo (Storia dell'Unità d'Italia, da Roma al Risorgimento, 1963), dopo aver preso in esame il grado di istruzione delle popolazioni rurali nello Stato Pontificio, così conclude: "Il popolo dava nelle campagne quasi il cento per cento all'analfabetismo". Precisando: Noi prendiamo sempre l'alfabeto per misurare il grado sociale dei tempi. E qui eravamo veramente a zero". Ma anche in Maremma la situazione è tutt'altro che rosea. I registri dei Comuni traboccano del termine "illetterato", a testimoniare che la scuola è assai lontana dal consentire a tutti di imparare almeno a leggere e a scrivere. Né il governo italiano, sostituitosi a quello lorenese, farà grandi sforzi per ovviare a questo grave inconveniente.
[…] Esiste, poi, il flagello inarrestabile della malaria che durante la stagione estiva miete vittime a centinaia, costringendo la gente della pianura (ma non certo i braccianti disoccupati) a rifugiarsi nei paesi dell'alta collina e della montagna.
[…] Per i poveri disgraziati colpiti dal morbo spesso non c'è scampo, anche a causa della gravissima carenza di strutture ospedaliere.
[…] Alla malaria danno inoltre man forte, per rendere la vita degli umili una vera tragedia, numerose altre malattie, come gli attacchi agli organi respiratori sotto molteplici forme, le gastriti, i dolori reumatici, le dissenterie, i catarri intestinali, la clorosi, le Infezioni cutanee, la pellagra, che si manifestano soprattutto nelle zone montane per l'inadeguatezza del vestiario, per motivi igienici e per l'alimentazione basata in modo particolare sull'uso della farina di granturco.
Ma se la situazione esistenziale delle popolazioni stabili raggiunge a volte livelli di grande drammaticità, non meno amara e aspra è quella dei lavoratori avventizi.
Questi miseri braccianti, costretti dalla sorte a trascorrere molti mesi dell'anno lontani dalla propria famiglia, a sgobbare da un buio all'altro per una mercede vergognosa, a non conoscere tregua, sono fortunati se hanno la ventura di poter dividere con altri lo spazio esiguo di una capanna, evitando di alloggiare in grotte o case dirute, più esposte all'umidità e all'inclemenza del tempo; e se riescono a imbattersi (cosa decisamente improbabile, per non dire impossibile) in persone oneste presso le quali approvvigionarsi senza spendere molto di più del necessario.
[…] Se a ciò si aggiunge che le acque, quasi sempre, non sono bevibili, si comprende benissimo come un tal genere di alimentazione abbia tutte le caratteristiche per essere considerato contrario a qualsiasi norma igienica e dietetica.
Il rispetto della verità impone tuttavia di dire che, pur in mezzo alla disastrosa situazione generale, gli operai avventizi del Grossetano hanno meno problemi di quelli del Viterbese. "Sono meglio alloggiati – ci informa il più volte citato autore dell'inchiesta agraria – meglio nutriti; un pallido riflesso delle costumanze toscane, assai più progredite e civili, si sparge anche sopra di loro..."
Ebbene, se si tien conto che la Maremma grossetana è ritenuta un inferno, una terra di punizione, un così reciso giudizio dice chiaramente quale gravità presenti lo stato d'indigenza e di arretratezza delle popolazioni laziali. E spiega in maniera più limpida di qualunque altra argomentazione come mai il brigantaggio dell'Italia centrale tragga pressoché esclusivamente le proprie origini dal territorio dello Stato Pontificio. Qui, dove le finanze sono "un disastro, l'amministrazione un caos, la giustizia un perpetuo arbitrio"; dove i valori morali – lo dicono Montanelli e Nozza – vengono "misurati sul numero dei paternoster e delle avemmarie", più frequenti che altrove sono i casi di scostumatezza, di prostituzione, di accattonaggio, di abuso di pascolo, di furti campestri, di tagli boschivi, di reati di sangue a causa del vino, del gioco e delle gelosie amorose, di violenze personali. E quando qualcuno, sia esso il privato cittadino o il rappresentante della legge, osa interporsi col proposito di esternare un ammonimento o di infliggere una punizione, scatta la molla dell'intolleranza e dell'ira che conduce facilmente all’omicidio e, per evitare la galera, alla scelta angosciosa della latitanza alla macchia.
Nascono, così, i vari Tiburzi e Biagini, Bettinelli e Pastorini, Ansuini e Menichetti, imitati da una miriade di altri disperati come loro. Ed è subito prepotenza, sopraffazione, terrore: "la protesta selvaggia e brutale – dirà in un suo discorso al Parlamento l'onorevole Massari – della miseria contro le antiche e secolari Ingiustizie".
Come la società li ha forgiati, così, ora, è costretta a subirli. Sono esseri che hanno perduto ogni fiducia e ogni speranza; che, attraverso i meandri di una vita fatta di sacrifici e di rinunce, di soprusi e di umiliazioni, hanno smarrito ogni disposizione alla pazienza e alla sopportazione, alla clemenza e al perdono: esseri accecati dalle tenebre dell'ignoranza, istigati da quel coacervo di provocazioni che la loro esistenza quotidiana è stata costretta a sopportare di attimo in attimo, inclinati al male da un sistematico, giornaliero esercizio di rudezza, di rabbia, di livore.
Nel loro animo non c'è che desiderio di rivalsa e di vendetta. E lo appagano scagliandosi contro tutto e contro tutti, finalmente guardati come ribelli all'iniquità dell'ordine costituito, finalmente temuti. Sono i padroni incontrastati delle campagne, i tirannici "re della strada, re della foresta ", i violatori di ogni legge civile e morale, capaci di fare, come si suoi dire, il bello e il cattivo tempo.
La maggior parte di loro non va per il sottile, accomunando nell'attività deleteria di cui è protagonista, ricchi e poveri, innocenti e sospetti di colpevolezza. Cosicché, prima o poi, cade sotto le grinfie dei briganti di questa categoria chiunque divenga oggetto di basse cupidigie, di diffidenze, di antipatie. Siffatta specie di energumeni è irrefrenabile e costituisce per i circondari in cui opera una vera calamità. Ma è anche, per fortuna, la specie destinata a non durare nel tempo, a pagare presto il fio delle malefatte o nella tomba o dietro le sbarre di una casa di pena.
Le popolazioni, infatti, la odiano, la ritengono un pericolo costante per le persone e per le cose. E danno spesso un contributo basilare per la sua eliminazione. Sono innumerevoli i fuorilegge che vengono uccisi o catturati grazie alle indicazioni di questo o di quello, senza le quali le forze dell'ordine si rivelano spesso impotenti, anche a causa degli organici assolutamente irrisori e della scarsa conoscenza del territorio.
Purtroppo, per uno che sparisce dalla circolazione, ve ne sono dieci pronti ad imbracciare la doppietta. Perché la società è una fabbrica di delinquenti a getto continuo, un mostro dalle fauci spalancate, intento a schiumare la sua bava velenosa.
Basta scrutare un momento nelle plaghe cimine e teverine per avere la preoccupante misura di questo fenomeno, per vedere come masnade di teste matte si abbandonino senza ritegno alle loro orge delittuose. Fra tutti, in una vastissima zona tosco–laziale, c'è anche il brigante che sa amministrare la propria latitanza e che riesce a restare sulla cresta dell'onda per un quarto di secolo, creandosi un'aureola di leggenda difficile da dissipare. Si tratta di Domenico Tiburzi, il pastore di Cèllere, passato alla storia locale come il "Re di Montauto", il "Re del Lamone" il "Livellatore".
[…] Oggi, quando si pronuncia il suo nome, balza subito alla mente la tragica situazione di una terra dimenticata da Dio e dagli uomini, di una società miseranda abbandonata nella sofferenza e nell'angoscia dall'egoismo padronale, defraudata dei diritti più elementari da governi inetti e insensibili a qualunque istanza di giustizia e di umanità. E allora la sua figura di fuorilegge appare come la conseguenza logica e inevitabile di un così iniquo ordinamento sociale e diventa oggetto di un giudizio che non può non riconoscerle più di una scusante e non condannare severamente le cause che l'hanno prodotta in dispregio di ogni dettame cristiano e civile.
La presa di Domenico Tiburzi sulle masse operaie e contadine trova in tutto questo la sua più convincente motivazione: egli rappresenta, agli occhi degli umili e dei diseredati, la ribellione che ciascuno di loro cova inconsciamente nel proprio animo; egli è capace di disubbidire a leggi che esigono ogni dovere negando ogni diritto. Così, il brigante di Cèllere diventa una specie di intrepido eroe popolare; e tutti ne magnificano le gesta e ne decantano gli atti di generosità (veri o supposti), innalzandolo a livelli mitici, ai quali nessun altro personaggio della Maremma (checché se ne dica) riuscirà mai ad assurgere. E nelle case, nelle botteghe, nelle trattorie di campagna e di città a distanza di quasi un secolo dalla tragica notte delle "Forane ", sua ultima (ed unica) immagine, che lo rivela come un povero cristo cinghialesco e affranto, appare sempre più diffusamente sempre più in vista, a testimoniare che non si è spento né il suo ricordo, né quello della terra amara in cui la sua legge riprese sostanza e consistenza.
[…] Questa, per sommi capi, è la valutazione che si può fare del malandrinaggio maremmano, di quel fenomeno delinquenziale che tanti riflessi negativi esercitò sulle popolazioni costrette a subirlo.
Con la sua definitiva scomparsa, avvenuta agli inizi del nostro secolo (XIX Secolo, n.d.c.), la "protesta selvaggia e brutale" dei suoi protagonisti cade nel silenzio. Fra poco (e lo vedremo nelle pagine conclusive) comincerà la "protesta civile" delle masse lavoratrici stanche di attendere che le promesse vengano mantenute.
Proprio dal Comune di Manciano, uno dei territori toscani più frequentati da Tiburzi e compagni, si sprigionerà la scintilla di quelle lotte contadine che, purtroppo, se si eccettua qualche modesta conquista temporanea, non riusciranno a raggiungere gli scopi desiderati, lasciando ancora una volta le categorie dei braccianti e dei campagnoli nella loro miseria di sempre, a reclamare invano giustizia, a rivendicare inascoltate il diritto al lavoro e all'esistenza.