| 
                         
                     
                    Storie di paesi e di feudi, di corrotte comunità
                      religiose e civili, di banditi e di pirati, di ribelli e
                      di conflitti, di persone importanti e di gente comune  
                     
                    Edizioni Effigi 
                    Parole e memorie/Tradizioni e folklore  
                    Arcidosso (GR), 2007 
                     
                    Illustrazioni di Cinzia Bardelli  
                     
                    pag. 104 
                      
                     
                     
                     IL
                          COLERA DEL 1855 IN MAREMMA E SULL’AMIATA  
                       
                      In Toscana si ammalarono cinquantamila persone e ne
                        morirono quasi ventiseimila. A Piancastagnaio si
                        distinse nel soccorso dei malati anche il giovane Giosuè
                        Carducci 
                     ece
                      la sua comparsa in Toscana verso la fine del 1854. Dilagò,
                      a poco a poco, in tutto il Granducato. Dapprima graziò
                      intere aree, città, paesi, villaggi. Si comportò come
                      l’acqua di un fiume che leggermente tracima, incanalandosi
                      nelle depressioni e lasciando, qua e là, isole di terra;
                      poi come un fiume che, gonfio da non poterne più, riversa
                      sulle campagne circostanti la sua massa d’acqua impetuosa,
                      tutto travolgendo, tutto sommergendo.  
                      Proprio così fece anche l’epidemia di colera che – tragica
                      – si abbatté dalla Maremma alla Versilia, dal Mugello
                      all’Amiata, per dieci lunghi, interminabili mesi, fino
                      all’inizio dell’ultima decade di ottobre 1855.  
                      Quando la terribile bufera si placò, furono contate le
                      persone colpite dal morbo e quelle che non trovarono
                      scampo: 49.413 le prime, 25.814 le seconde. Una strage di
                      proporzioni gigantesche. Una vera carneficina. Anche una
                      trentina di medici (per l’esattezza ventinove) pagarono
                      con la vita l’opera di soccorso e di assistenza che
                      prestarono agli ammalati negli ospedali esistenti e in
                      quelli improvvisati un po’ dappertutto per far fronte alle
                      necessità del drammatico momento.
                       
                      Il numero dei morti, superò notevolmente quello dei nati
                      in tutto il corso dell’anno. Anche l’erario pubblico fu
                      messo a dura prova dal flagello. Le spese sostenute
                      ammontarono, infatti, ad un milione e ottocentomila lire
                      che, per quei tempi, rappresentavano una cifra enorme
                      rispetto al potere d’acquisto della moneta.
                       
                      Si può facilmente immaginare, dunque, quale fu la gioia
                      della popolazione toscana quando apparve chiaro che il
                      morbo aveva ormai esaurito la sua letale azione; e
                      allorché, a Firenze, per tre giorni consecutivi (27, 28 e
                      29 ottobre) ci furono forti e prolungate tempeste d’acqua
                      e di vento che, con tutta probabilità, contribuirono ad
                      eliminare definitivamente l’infezione.
                       
                      Il vescovo della città indisse per il primo di novembre
                      una giornata di ringraziamento; e il 16 di dicembre,
                      l’Arciconfraternita della Misericordia, per lo stesso
                      motivo, organizzò una processione che raggiunse prima la
                      chiesa della Santissima Annunziata, poi San Marco, com’era
                      avvenuto nel 1632 dopo la peste.[…]
                       
                      Notizie e dati sul colera del 1855 sono riportati, con
                      dovizia di particolari, nel volume Il governo di
                        famiglia in Toscana. Le memorie del Granduca Leopoldo II
                        di Lorena (1824-1859), pubblicato nel 1987
                      dall’Editore Sansoni di Firenze a cura di Franz
                      Pesendorfen, uno storico tedesco formatosi all’Università
                      di Vienna, che ai granduchi di Lorena ha dedicato altre
                      importanti pubblicazioni. Questa, piuttosto corposa (quasi
                      600 pagine, venne da lui scoperta casualmente presso il
                      Ministero dell’Agricoltura cecoslovacco: inedita, per
                      colpa del re Giovanni di Sassonia, al quale Leopoldo II
                      aveva raccomandato di licenziarla alle stampe.
                       
                      Si tratta di un testo prezioso, nel quale “Canapone” ha
                      dettagliatamente descritto tutti gli atti del suo governo,
                      oltre agli avvenimenti più importanti di quegli anni, fra
                      i quali anche il colera che afflisse la Toscana (e non
                      solo questa regione), cui dedica una ventina di pagine.
                      […] 
                      La prima grave manifestazione del morbo nell’area
                      maremmana fu comunicata il 21 di giugno, al governo
                      granducale, dal Prefetto di Grosseto Cercignani e
                      riguardava il paese di Porto Santo Stefano. Cercignani
                      corse immediatamente sul posto e notò come le persone più
                      povere e debilitate dall’insufficiente nutrizione avessero
                      trovato subito la morte, mentre le altre, terrorizzate,
                      fossero fuggite per rifugiarsi nelle capanne del
                      territorio, rendendo così impossibile ogni intervento del
                      personale sanitario. […]  
                      Verso la fine del mese di luglio, a essere colpita in
                      maniera grave fu Massa Marittima, dove molte famiglie
                      furono quasi distrutte. […] Vittima del colera fu anche un
                      funzionario dell’amministrazione granducale molto
                      apprezzato da Leopoldo II, il cavalier Giacomo Grandoni.  
                      Fu poi la volta di Pitigliano, in cui il timore di essere
                      contagiati provocò la fuga dal paese di tutta la
                      popolazione, molta della quale abitava nelle cantine e
                      nelle grotte. Scrive Leopoldo II: «…era bene che da quello
                      scoglio ristretto la gente si allargasse». In effetti,
                      abitare uscio a uscio, in un groviglio d’angusti vicoli,
                      in un dedalo di viuzze, poteva facilitare il contagio e
                      determinare una situazione patologica veramente
                      drammatica.
                      […] 
                      Nella ricorrenza dell’Assunzione della vergine, il 15
                      agosto, i contagiati – in Toscana – furono 905, 427 i
                      morti. L’epidemia «ripullulò» a Porto Santo Stefano,
                      suscitando sconcerto e disperazione; e si estese
                      dall’Argentario a Magliano in Toscana, da Grosseto a
                      Gavorrano, da Castiglione della Pescaia a Massa Marittima.
                      A Pitigliano si riaccese furiosa; e fu un’ecatombe. Il
                      danaroso gonfaloniere Gaspero Ciacci prestò un’opera di
                      soccorso infaticabile. Aveva un figlio medico che si
                      attivò per ottenere aiuti. E fu esaudito.
                      A proposito di Scansano, ecco che cosa scrive il Granduca,
                      la cui contrarietà al periodo di “estatatura” in quel
                      luogo fu sempre esplicita e convinta: paese «elevato ma
                      esposto a bacìo fra mezzogiorno e ponente, dove li effluvi
                      di Maremma salgono per la valle dell’Albegna, luogo
                      soggetto alla nebbia e a subitanee variazioni di
                      temperatura (per lo che non lo credevo opportuno come
                      soggiorno estivo all’impiegati di Maremma) avvenuta una
                      vicenda fortissima di temperatura le diarree si mutarono
                      in colera». 
                      In quello stesso 15 agosto, a Scansano, i contagiati
                      furono 32, i morti 23. Questi, per mancanza d’idonei mezzi
                      di trasporto, furono caricati sul pianale di un grosso
                      carro munito di torcia, uno sopra l’altro. La scena fu
                      tragica, come quella di manzoniana memoria che aveva visto
                      all’opera i monatti incaricati di «sgombrare» le case di
                      Milano dalle vittime della peste.  
                      Oltre ai possidenti Castagnoli, Ajola e Valle, si
                      ammalarono – essendo a Scansano per l’”estatatura” – il
                      procuratore Mori-Ubaldini, l’auditore del Tribunale
                      Bianchi, il consigliere di prefettura Pratesi e il
                      commesso Rossi. Il delegato Ademaro Ripoli volò nel mondo
                      dei più. E fu davvero malvagio, il suo destino, se si
                      pensa che era emigrato da Grosseto in collina per sfuggire
                      alla malaria.  
                      I preti del paese e i frati del convento di Petreto
                      affrontarono la situazione con grande spirito di
                      sacrificio, «finché uno restasse vivo», riferisce
                      “Canapone”. A Scansano fu spedito il delegato Ricci; a
                      Grosseto, per far fronte alla crescente richiesta di
                      soccorso, fu assegnata ai colerosi la chiesa di San
                      Francesco.  
                      Anche sul Monte Amiata, fino a quel momento lasciato in
                      pace, il morbo fece la sua comparsa in quei giorni. E ad
                      essere colpita per prima fu la comunità di Santa Fiora
                      (dove fu mandato un funzionario governativo); poi fu la
                      volta d’Arcidosso e di Roccalbegna; quindi – sul versante
                      senese – di Abbadia San Salvatore e di Piancastagnaio.  
                      Qui, il dottor Michele Carducci e i figli Dante e Giosue
                      (ma questo Leopoldo II non lo dice, non poteva dirlo,
                      perché il poeta era ancora un giovane ventenne ignorato e
                      suo padre, fra l’altro, osteggiava il governo granducale)
                      si distinsero per altruismo, solidarietà e abnegazione,
                      tanto da ricevere l’encomio dei pubblici amministratori.  
                      Lo racconta, invece, Giuseppe Fatini nel volumetto Il
                        padre di Giosue Carducci medico nel Senese (Siena,
                      1937), dove si apprende che la prima vittima del colera
                      nel paese amiatino ci fu il 26 agosto 1855 e si trattò di
                      una povera donna, stroncata dal morbo dopo sette ore
                      d’indicibili sofferenze.  
                      La rapida diffusione del contagio terrorizzò talmente la
                      popolazione da indurla a fuggire nei boschi della
                      montagna, abbandonando i familiari ammalati o defunti
                      nelle loro case; e dimenticando non solo il dovere
                      d’umanità che doveva trattenerla, ma anche ogni sentimento
                      d’affetto nei confronti delle persone care.  
                      Su circa tremila abitanti, i colerosi furono 128, i morti
                      53. E pure qui, come nel resto della Toscana, l’epidemia
                      cominciò a decrescere verso la fine di settembre per
                      placarsi e scomparire una ventina di giorni più tardi.  
                      Quelle che abbiamo riportato, riguardo alla Maremma, sono
                      le sole notizie che il volume del Granduca ci tramanda; ma
                      è indubitabile che – quali più, quali meno – tutti i
                      centri abitati del Grossetano furono colpiti dal colera.
                      Il quale, oltre a provocare in Toscana circa ventiseimila
                      morti; a gettare nella disperazione le famiglie colpite
                      dalla sventura di perdere talvolta più di un congiunto; a
                      suscitare panico nella generalità della popolazione, fu
                      disastrosa anche per l’economia dei singoli cittadini e
                      della collettività, perché molti lavori furono trascurati
                      o sospesi. Per vivere, la gente era costretta a portare i
                      suoi oggetti preziosi al monte di pietà allo scopo di
                      ottenere un prestito. «In questo tristo tempo – scrive
                      “Canapone” – non solamente le sustanze delle basse classi
                      della società erano stremate. Fu portato a me lo stato
                      dell’uffizio del Presto di Firenze: eravi deposito di
                      argenti, ori e gioie per 1.675.000 lire, valori che senza
                      errore puonno raddoppiarsi».
                     
                        
                   |