VIII. STORICI LOCALI, COLLEZIONISTI, NARRATORI. PASSIONI,
OGGETTI E STORIE
in
dai primi passi mossi sul campo della ricerca che venne
affidata al gruppo di cui facevo parte, gli storici locali e
i collezionisti ci parvero essere tra gli agenti più attivi
nel campo della valorizzazione patrimoniale della figura del
brigante. Con i loro scritti, tramite la loro attività
pubblicistica, i localisti nel corso degli anni hanno svolto
un ruolo fondamentale nel mantenere in vita fino ad oggi il
ricordo dei briganti, nell'alimentare l'immaginario sul
brigantaggio, nel contribuire a fare del brigante un
patrimonio locale (Padiglione 2006:59-64). La figura più
rilevante con la quale avemmo modo di rapportarci fu quella
di Alfio Cavoli. Insegnante, pubblicista, amministratore
locale, appassionato studioso di cose di Maremma, Alfio
Cavoli nel corso della sua attività produsse una
bibliografia amplissima. I suoi interessi andavano - Cavoli
è morto nel 2008 — dalla preistoria alla seconda guerra
mondiale. Molte energie questo localista le dedicò alla sua
terra, raccogliendone storie e leggende. Eppure Cavoli
rimane conosciuto soprattutto come studioso di brigantaggio;
nel Viterbese e nel Grossetano egli era conosciuto - ed è
tutt'ora ricordato — come il brigantologo, un
soprannome nei confronti del quale nutriva un rapporto
piuttosto ambivalente.[…]
Alfio Cavoli e il brigantaggio. Una
rilettura simpatetica
Tra gli storici locali il caso che merita maggiore
attenzione è quello di Alfio Cavoli. Non mi risulta che, a
cinque anni dalla morte, qualcuno si sia avventurato nella
elaborazione di un profilo critico complessivo della sua
opera, la quale — da un rapido censimento incrociato fatto
consultando il sito web del Servizio Bibliotecario Nazionale
e il sito web dell'associazione culturale che porta il nome
dello studioso mancianese — consta di cinquantatré volumi
(monografie o raccolte di saggi pubblicati tra il 1965 e il
2010, compresa qualche riedizione) e un numero non
facilmente definibile di articoli sparsi sulla stampa
locale. Si tratta di una mancanza alla quale mi auguro
qualcuno in futuro voglia porre rimedio, anche nella
prospettiva di una attenta riflessione su cosa significhi
oggi (e che cosa abbia significato nei decenni scorsi) fare
storia locale (e in particolare farla in Maremma). […]
Secondo la mia personale lettura, l'economia generale della
produzione di Cavoli propende in maniera netta verso
sentimenti di simpatia e indulgenza verso il brigante
cellerese [n.d.c. Domenico Tiburzi], una
disposizione che mi è sembrata di cogliere in filigrana e
che si colloca nel solco di una ben consolidata tradizione.
In questo modo mi veniva di interpretare i suoi libri, e in
una certa misura mi viene da farlo tutt'ora. Tuttavia oggi
mi rendo conto che se si assume la giusta distanza
nell'osservare l'intero corpus, e soprattutto se si
proietta la produzione dell'Autore in un contesto che è
quello della sua vita e del suo impegno civile, allora
prende contorni definiti il disegno entro il quale tutto — i
suoi libri, le sue visioni — assume coerenza e maggiore
intelligibilità.
Due brevi testi scritti da Cavoli che ho riletto di recente
mi confermano in questa mia convinzione. Il primo testo
consiste nell'Introduzione all'Anonimo di Valentano;
l'altro è il primo capitolo del libro I Briganti
dell'Ottocento che ha per titolo La protesta
selvaggia e brutale, saggio che ha l'ambizione
dell'analisi storica di ampia portata. In quest'ultimo
Cavoli parla del brigantaggio (usando parole attribuite
all'On. Giuseppe Massari, autore di una indagine sul
fenomeno) come della «protesta brutale selvaggia contro le
secolari ingiustizie» rispetto a condizioni di vita, quelle
delle classi popolari del Viterbese, che risultavano
scientemente mantenute nella miseria più nera per volere
della classe dominante. Cavoli descrive la società
dell'epoca, il territorio sotto il potere del Papa-Re come
una «fabbrica di delinquenti a getto continuo». Costruendo
la sua argomentazione tramite il ricorso a citazioni tratte
da ricerche e campagne di studio (Nobili-Vitelleschi,
Lodolini), egli delinea per il Grossetano — ma ancor più per
il Viterbese — una situazione devastante di miseria
materiale e morale. Ponendo sullo sfondo questo quadro di
desolante povertà, Cavoli parla di «masnade di teste matte
che si abbandonano senza ritegno alla loro orge delittuose».

Alfio Cavoli nel suo studio.
Manciano, 29/4/2005
(Foto di Marco D'Aureli)
Scrivendo di Tiburzi, sostiene che la «figura di fuorilegge
appare come la conseguenza logica e inevitabile di un così
iniquo ordinamento sociale e diventa oggetto di un giudizio
che non può non riconoscerle più di una scusante e non
condannare severamente le cause che l'hanno prodotta in
dispregio di ogni dettame cristiano e civile» (p.29). Il
brigantaggio appare in questa luce né più né meno che la
conseguenza di tale e tanta mala politica. Quella dei
briganti, scrive Cavoli, è — per usare le parole già sopra
citate — la "protesta selvaggia e brutale" verso un mondo
cieco e sordo rispetto all'estrema povertà e sofferenza che
albergavano in Maremma (specie nella parte laziale) prima
dell'Unità; quella protesta che poi, con l'inizio del
Novecento e con l'avvento dei grandi movimenti di massa
(partiti politici e sindacati), sarebbe diventata la
protesta "civile" e organizzata (cfr. pp. 205-221; La Bella,
Mecarolo 1995). Il brigantaggio è — letto in questa
prospettiva — un prologo, violento e scomposto, delle lotte
sociali contro il latifondo (e non solo) che sarebbero
arrivate successivamente.
Dalle parole di Cavoli emerge una critica asprissima nei
confronti dello Stato Pontificio. Tutto quanto appena detto,
agli occhi di un giornalista, scrittore e politico di
orientamento progressista (per quindici anni Cavoli è eletto
in qualità di "indipendente di Sinistra" al consiglio
comunale di Manciano con l'incarico di assessore alla
cultura) deve essere stato percepito, letto, come una
profonda ingiustizia, come uno scandalo, un qualcosa da
denunciare e contro cui scagliarsi in sede di riflessione
storiografica. Ed ecco allora che trova fondamento e
spiegazione l'interesse e la passione per il brigantaggio,
per una serie di comportamenti ed azioni — provo a calarmi
nel suo punto di vista — letti come espressione di un moto
di rivolta (per quanto disordinata), di sovvertimento
dell'ordine, un ordine sentito come prepotentemente
ingiusto.
Rispetto a questo quadro una critica all'approccio di Cavoli
mi sento ancora di muoverla. Una critica che non è generata
dal desiderio di smentire l'Autore sistematicamente e per
partito preso, ma che anzi è l'esito di quella accuratezza
nella lettura e di quella attenzione ai testi che è il
giusto riconoscimento che lo studioso deve a chi, con onestà
intellettuale, lo ha preceduto sul sentiero della ricerca.
Alfio Cavoli mi sembra muoversi un po' troppo meccanicamente
entro gli schemi di un certo determinismo. Trovo che un
approccio di questo tipo rischi di costringere gli attori
sociali entro un copione rigidissimo che appare non lasciare
loro scampo. […] Voglio dire: non è riducente e fuorviarne
la rappresentazione del fuorilegge, del deviante, per la
quale egli è spinto a delinquere dalla fame? Non rischia di
condurre al mancato riconoscimento di intenzioni, progetti,
visioni del mondo alternative, capacità adattative: in
sintesi, di una vera e propria cultura altra, diversa sia
rispetto a quella dei suoi stessi contemporanei, sia a
quella dello storico e dell'osservatore di oggi?
L'impressione, in definitiva, è che Cavoli accosti con uno
sguardo non "interpretativo" bensì "naturalistico" e
orientato ad una forma di strambo pietismo (i briganti come
povere vittime di un sistema iniquo). Probabilmente il
contesto culturale e storico entro cui Cavoli ha potuto
studiare il brigantaggio ha favorito questo tipo di
approccio. Eppure l'esercizio di interpretazione che ho
proposto, a mio parere, andava fatto. Anche perché tutt’ora
i libri di Cavoli hanno grande circolazione e presa tra il
pubblico, e produrre su di essi una lettura critica ritengo
possa avere una sua utilità.
Del volume ripetutamente citato, Briganti dell’Ottocento
nella Maremma e nella Tuscia […] colpisce anche la
rivendicazione di una attendibilità costruita nel testo
attraverso gli espliciti richiami ad altri «episodi
briganteschi [dei quali — è Cavoli che parla] siamo venuti
inoltre a conoscenza in seguito alla consultazione di
diverse pubblicazioni, consentendoci di assemblare — in
tutto — varie decine di pagine che, aggiunte al testo
originale, fanno, di questo, un lavoro più complesso, più
ricco, più interessante. Dobbiamo dire, fra l'altro che,
dall'anno in cui vide la luce Briganti in maremma.
Storia e leggenda ad oggi, molte sono state le
esperienze da noi vissute in questo campo; e dalle quali
abbiamo tratto nuovi elementi per l'arricchimento delle
conoscenze in materia». Cavoli costruisce in questo
passaggio la propria autorità — fosse stato un antropologo
avremmo parlato di autorità etnografica (cfr. Fabietti,
Matera 1997, Clifford, Marcus 1997, Clifford 1999 Parte 1).
È un po' come se l'Autore cercasse di persuadere il lettore
dicendogli: «Adesso, rispetto a prima, ne so di più,
credimi; ho i documenti (ma anche: ho le esperienze) che mi
supportano in quello che dico».
Se dovessi trovare una mancanza lungo il percorso
allestitivo del Museo, una mancanza che non è detto in
futuro possa essere colmata, direi che è legata proprio al
rapporto oralità-scrittura in merito alla perdurare di
memorie relative al brigantaggio.
Quando giravamo per fare interviste, parlo soprattutto per
me, però mi ricordo che questa cosa la notarono anche gli
altri colleghi, mi aspettavo che la risposta alla fatidica
domanda: «Questa storia, a lei, chi l'ha raccontata?»
rimandasse a narrazioni fatte in contesti di veglia, al
lavoro, davanti al fuoco, a storie narrate da vecchi. Invece
sovente ci toccava incassare candide risposte di questo
tenore: «Le abbiamo lette sui libri di Alfio Cavoli». E così
più di una volta ci è capitato di trovarci davanti a «un
vecchio narratore popolare [che] ricorda[va] di sfuggita un
libro di cui qualcun altro gli ha parlato» (Ricci 2004a:68).
Torna dunque l'immagine dello storico locale quale
produttore di storie e memorie ulteriori. Ma non solo.
Quello che in questo modo si delinea è una sorta di
cortocircuito, o comunque di circolarità,
oralità/scrittura/oralità, «una verità spesso rimossa dalla
Metafisica Oralista: tradizione orale e letteratura non
smettono mai di contaminarsi» (ibid.). Cavoli raccoglieva
(pessimo termine, quest'ultimo, ereditato dalla tradizione
positivistica, meglio: produceva e documentava) storie,
memorie che poi ha riscritto, ha riraccontato, che qualcuno
ha letto, ha raccontato a sua volta, e che hanno finito con
l'alimentare l'immaginario diffuso sui briganti finendo poi
in Museo.
*Tratto
da: Marco D'Aureli, «Il fatterello è questo» Storie e
memorie contemporanee dal Museo del brigantaggio di
Cellere, Sistema Museale del Lago di Bolsena, Quaderni
17, Bolsena, 2015
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