no degli
studiosi più prolifici e appassionati del banditismo in
Maremma e nel viterbese è Alfio Cavoli. Uno studioso di
parte, legato alla leggenda di un brigantaggio epico
originato dalle difficoltà di sopravvivenza in Maremma.
Esordisce giovane con Uomini, cose e paesi della
Maremma (San Marino 1965) al quale fa immediatamente
seguito La Maremma di Tiburzi (San Marino 1966)
che segna anche un'attività di ricerca sul brigante di
Cellere che durerà per anni. Nel 1970 pubblica a Pisa Briganti
di Maremma presentazione di Giorgio Batini, ma il
rientro verso Tiburzi è immediato, Il giustiziere di
Cellere: storia degli omicidi di Domenico Tiburzi,
con prefazione di Furio Bartorelli (Pisa 1975). A quattro
anni di distanza ecco Quando l'inferno era in Maremma
(Pistoia 1979) seguito dai Briganti in Maremma: storia
e leggenda (Pistoia 1983); I briganti italiani nella
storia e nei versi dei cantastorie: il ribellismo
sociale in Maremma e altrove, dalla Romagna al Lazio
Meridionale (Roma 1991). Il passo successivo è la
ricostruzione delle azioni delittuose de Lo sparviere
della Maremma: storia di Enrico Stoppa, il feroce
brigante di Talamone (1834-1863) (Roma 1990) cui
seguono La Papessa Olimpia: storia della Pimpaccia di
Piazza Navona, la donna avida di potere e di ricchezza
che per un decennio resse le sorti della Chiesa
(Roma 1992); Amata Amiata: viaggio sentimentale
attraverso ipaesi e le terre della montagna maremmana
(Valentano 1994); e ancora Tiburzi: l'ultima notte:
verità di vita e di morte nella Maremma dei guitti e dei
briganti (Valentano 1994), un libro nel quale Cavoli
prova a fare luce sulla morte di Tiburzi, avvenuta nel
casolare di campagna delle Forane e sulle penombre che da
sempre si addensano su quell'episodio. Con chi aveva
trascorso le ultime ore? Perché, seppure ferito alle gambe
venne ammazzato? Quale ruolo ebbero i familiari di
Nazareno Franci, il contadino che ospitava il brigante
maremmano la notte dell'uccisione?
Tiburzi e Luciano Fioravanti pare venissero spesso in quel
casolare, dove si intrattenevano con Maria Domenica
Benicchi, nuora di Nazzareno e con la nipote Marianna
Fransini. La notte tra il 23 e il 24 ottobre 1896, si
inferisce dalle deposizioni, i due banditi giungevano alle
Forane. In casa erano Nazzareno e Felicissima Franci, il
figlio Santi con la moglie Maria Domenica, i loro due
bambini, la nipote Marianna e un garzone. Santi era stato
in mattinata a Capalbio a fare una spesa non solita: una
diecina di sigari, tre chili di pasta, rum. Al processo
disse che si era già coricato con la moglie Domenica
quando arrivarono i due banditi a cui offrirono della
pasta avanzata e formaggio. Ma forse le cose andarono
diversamente, i Franci sapevano dell'arrivo dei briganti
nella notte e prepararono cena e vino abbondante. Tant'è
che furono condannati per favoreggiamento a sei mesi di
carcere.
Ma ciò che più interessa del libretto di Cavoli è
l'analisi della morte di Tiburzi. Il brigante, avvinazzato
sente i cani latrare, si fa sulla porta e viene investito
da una gragnola di fucilate. Ci sono cinque militi là
fuori. Ferito alle gambe cade e riesce persino a
rispondere a qualche domanda. A quel punto un colpo di
fucile gli spappola il cervello. Il colpo viene esploso
per tappargli la bocca e impedirgli di fare nomi di
protettori. Tra questi forse, anche il nome del
Collacchioni, proprietario del tenimento delle Forane. Lo
aveva ricordato anche Mario Puccioni, in Cacce e
cacciatori di Toscana, un libro del 1932 nel quale
parla della propria passione venatoria e dei banditi
maremmani, ricordando come venisse talora a caccia nelle
terre dell'amico Collacchioni. Il Tiburzi fu issato e
legato a una colonna romana. Il fotografo Ulivi scattò
delle macabre fotografie che ritraggono il brigante non
più vivo. La gente accorsa sul posto portò via per ricordo
i sigari. Quel che restava del cervello fu spedito al
Lombroso, per i suoi studi di antropometria criminale.
Cavoli è autore inoltre di Maremma amara: dagli
Etruschi ai briganti storia curiosità folklore
(Valentano 1996).
C'è più di una ragione se tra i briganti del viterbese il
nome di Tiburzi sia rimasto nella leggenda, se sia stato
al centro di convegni e se alcuni amministratori si siano
persino azzardati a proporre l'intitolazione a lui di una
strada. Alfio Cavoli prova a raccogliere in Tiburzi la
leggenda della Maremma (Valentano 1996) quello che
esiste di leggendario e i molti episodi che possono aver
concorso alla creazione del mito.
Dall'esercizio di una giustizia sommaria e fondata sulla
legge del taglione, come nel caso del bandito Giuseppe
Basili che contravviene all'imposizione di non ammazzare
un giovane pittore e verrà per questo giustiziato, alle
sovvenzioni offerte a una vedova o a un'orfanella, al
rispetto per le donne. Alle leggende Cavoli aggiunge
ballate e canti nati sull'epopea di Tiburzi: le ottave di
Quintilio Cosimi; l'anonima canzonetta Morto è
l'intrepido forte leone; la Lettera di Tiburzi
agli amici dall'inferno; la Lettera di Tiburzi
agli amici dal Paradiso; le canzoni di Mario [Mauro]
Chechi, Tiburzi; di Silvana Pampanini, Storia
di Domenico Tiburzi; di Viola Buzzi, Padre
livellatore; di Mario Olimpieri, Domenico
Tiburzi; la ballata di Giovanni Bucci carbonaio La
vita strapazzata in Maremma.
*Da
«Giustiziateli sul campo (Letteratura e banditismo da
Robin Hood ai giorni nostri)», di Raffaele Nigro,
Rizzoli, Scala Italiani, Milano, 2006
|