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Testimonianze
Alfio Cavoli
e la sua Maremma*

di Raffaele Nigro
(Scrittore, giornalista, direttore e successivamente caporedattore
per la sede regionale RAI della Puglia)

Giustiziateli sul campo
no degli studiosi più prolifici e appassionati del banditismo in Maremma e nel viterbese è Alfio Cavoli. Uno studioso di parte, legato alla leggenda di un brigantaggio epico originato dalle difficoltà di sopravvivenza in Maremma.
Esordisce giovane con Uomini, cose e paesi della Maremma (San Marino 1965) al quale fa immediatamente seguito La Maremma di Tiburzi (San Marino 1966) che segna anche un'attività di ricerca sul brigante di Cellere che durerà per anni. Nel 1970 pubblica a Pisa Briganti di Maremma presentazione di Giorgio Batini, ma il rientro verso Tiburzi è immediato, Il giustiziere di Cellere: storia degli omicidi di Domenico Tiburzi, con prefazione di Furio Bartorelli (Pisa 1975). A quattro anni di distanza ecco Quando l'inferno era in Maremma (Pistoia 1979) seguito dai Briganti in Maremma: storia e leggenda (Pistoia 1983); I briganti italiani nella storia e nei versi dei cantastorie: il ribellismo sociale in Maremma e altrove, dalla Romagna al Lazio Meridionale (Roma 1991). Il passo successivo è la ricostruzione delle azioni delittuose de Lo sparviere della Maremma: storia di Enrico Stoppa, il feroce brigante di Talamone (1834-1863) (Roma 1990) cui seguono La Papessa Olimpia: storia della Pimpaccia di Piazza Navona, la donna avida di potere e di ricchezza che per un decennio resse le sorti della Chiesa (Roma 1992); Amata Amiata: viaggio sentimentale attraverso ipaesi e le terre della montagna maremmana (Valentano 1994); e ancora Tiburzi: l'ultima notte: verità di vita e di morte nella Maremma dei guitti e dei briganti (Valentano 1994), un libro nel quale Cavoli prova a fare luce sulla morte di Tiburzi, avvenuta nel casolare di campagna delle Forane e sulle penombre che da sempre si addensano su quell'episodio. Con chi aveva trascorso le ultime ore? Perché, seppure ferito alle gambe venne ammazzato? Quale ruolo ebbero i familiari di Nazareno Franci, il contadino che ospitava il brigante maremmano la notte dell'uccisione?
Tiburzi e Luciano Fioravanti pare venissero spesso in quel casolare, dove si intrattenevano con Maria Domenica Benicchi, nuora di Nazzareno e con la nipote Marianna Fransini. La notte tra il 23 e il 24 ottobre 1896, si inferisce dalle deposizioni, i due banditi giungevano alle Forane. In casa erano Nazzareno e Felicissima Franci, il figlio Santi con la moglie Maria Domenica, i loro due bambini, la nipote Marianna e un garzone. Santi era stato in mattinata a Capalbio a fare una spesa non solita: una diecina di sigari, tre chili di pasta, rum. Al processo disse che si era già coricato con la moglie Domenica quando arrivarono i due banditi a cui offrirono della pasta avanzata e formaggio. Ma forse le cose andarono diversamente, i Franci sapevano dell'arrivo dei briganti nella notte e prepararono cena e vino abbondante. Tant'è che furono condannati per favoreggiamento a sei mesi di carcere.
Ma ciò che più interessa del libretto di Cavoli è l'analisi della morte di Tiburzi. Il brigante, avvinazzato sente i cani latrare, si fa sulla porta e viene investito da una gragnola di fucilate. Ci sono cinque militi là fuori. Ferito alle gambe cade e riesce persino a rispondere a qualche domanda. A quel punto un colpo di fucile gli spappola il cervello. Il colpo viene esploso per tappargli la bocca e impedirgli di fare nomi di protettori. Tra questi forse, anche il nome del Collacchioni, proprietario del tenimento delle Forane. Lo aveva ricordato anche Mario Puccioni, in Cacce e cacciatori di Toscana, un libro del 1932 nel quale parla della propria passione venatoria e dei banditi maremmani, ricordando come venisse talora a caccia nelle terre dell'amico Collacchioni. Il Tiburzi fu issato e legato a una colonna romana. Il fotografo Ulivi scattò delle macabre fotografie che ritraggono il brigante non più vivo. La gente accorsa sul posto portò via per ricordo i sigari. Quel che restava del cervello fu spedito al Lombroso, per i suoi studi di antropometria criminale.
Cavoli è autore inoltre di Maremma amara: dagli Etruschi ai briganti storia curiosità folklore (Valentano 1996).
C'è più di una ragione se tra i briganti del viterbese il nome di Tiburzi sia rimasto nella leggenda, se sia stato al centro di convegni e se alcuni amministratori si siano persino azzardati a proporre l'intitolazione a lui di una strada. Alfio Cavoli prova a raccogliere in Tiburzi la leggenda della Maremma (Valentano 1996) quello che esiste di leggendario e i molti episodi che possono aver concorso alla creazione del mito.
Dall'esercizio di una giustizia sommaria e fondata sulla legge del taglione, come nel caso del bandito Giuseppe Basili che contravviene all'imposizione di non ammazzare un giovane pittore e verrà per questo giustiziato, alle sovvenzioni offerte a una vedova o a un'orfanella, al rispetto per le donne. Alle leggende Cavoli aggiunge ballate e canti nati sull'epopea di Tiburzi: le ottave di Quintilio Cosimi; l'anonima canzonetta Morto è l'intrepido forte leone; la Lettera di Tiburzi agli amici dall'inferno; la Lettera di Tiburzi agli amici dal Paradiso; le canzoni di Mario [Mauro] Chechi, Tiburzi; di Silvana Pampanini, Storia di Domenico Tiburzi; di Viola Buzzi, Padre livellatore; di Mario Olimpieri, Domenico Tiburzi; la ballata di Giovanni Bucci carbonaio La vita strapazzata in Maremma.

*Da «Giustiziateli sul campo (Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri)», di Raffaele Nigro, Rizzoli, Scala Italiani, Milano, 2006