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Testimonianze
In ricordo di Alfio Cavoli*
di Leo Marino Morganti
(Architetto, Presidente della Commissione per la Conservazione dei Monumenti, degli Oggetti d’Antichità ed Arte della Repubblica di San Marino, Commissario Nazionale per l’Arte e l’Architettura alla Biennale Venezia, Membro del Comitato Scientifico del Centro Sammarinese di Studi Storici)

Tomba di Alfio Cavoli, particolare



Ho progettato la tomba** di Alfio Cavoli***, uno dei più prolifici scrittori di Maremma. Egli amava profondamente la sua terra. Ne amava le tradizioni, la lingua, la cultura, l’arte, le tragedie, la miseria, la nobiltà. Scrisse d’arte, archeologia, storia e raccontò le vite dei disperati di quella terra: i briganti assassini, vittime e carnefici. La tomba è quella di uno scrittore: una libreria in metallo consunto dal tempo nei cui ripiani giacciono libri di pietra: i libri “vanno e vengono” dalla sepoltura laddove Alfio legge e scrive ancora, come fa lo scrittore anche dopo la morte.
Ora, a ricordo di Alfio, profondamente legato al nostro Paese ove pubblicò alcuni dei suoi libri e ove trovò la compagna che lo seguì nel suo percorso terreno, vorrei lasciare questi appunti al fine di mettere nella giusta luce il grande pittore Paride Pascucci, figlio di quella Maremma che diede i natali anche al brigante Domenico Tiburzi; due personaggi e due personalità intorno alle quali Alfio dissertò amabilmente lasciandoci pagine di grande spessore e umanità.

Quattro opere di Paride Pascucci nel panorama storico della Maremma di fine Ottocento e primi Novecento alle prese con ingiustizie sociali e briganti

Paride Pascucci (1866 – 1954), uno dei massimi artisti italiani, nacque a Manciano nel secolo delle rivoluzioni borghesi. Passata la furia francese e la meteora napoleonica, il 1815 parrebbe consacrare un ritorno all’ancien régime; ma, ormai, le cose sono cambiate, nonostante il congresso di Vienna, la rivoluzione riprende il suo cammino ed i principi che ne costituiscono l’elemento propulsore, attraversati i moti ottocenteschi, pur se pesantemente umiliati con la fine della Comune, trovano, tuttavia, sempre nuove gambe per camminare. Il filo conduttore, che da secoli legava la produzione artistica ad un unico modello rappresentativo, era stato reciso. Gli artisti, i letterati, i poeti diverranno interpreti di un diverso modo di concepire l’arte e saranno sempre più figli di un mondo in evoluzione che sancirà la definitiva rottura con il passato. Già, qualche secolo prima, pittori come Caravaggio (1571 – 1610) furono fautori di una poderosa scossa innovatrice che sconvolse la visione univoca della rappresentazione sacra spezzandone le catene che l’assoggettavano ad una concezione esclusivamente trascendente e mitologica.
In Cosa può un corpo? Lezioni su Spinosa (Prefazione a cura di Aldo Pardi, Napoli, 2010) Gilles Deleuze (1925-1995), citando Bergson (1859 – 1941), scrive che “L’artista è colui che - [...] - muta i limiti in opportunità. [...]. I pittori si servivano di Dio per liberare le forme, per spingerle molto oltre la semplice illustrazione, [...]”. Ovvero, gli artisti trasmettevano, celata dietro la narrazione sacra, la vera condizione umana.
Il san Matteo e l’angelo, la tela perduta nel 1945, dipinta dal Merisi nel 1601, costituirà uno dei prodromi più amati dal realismo ottocentesco. L’ottocento va letto, con tutte le sue contraddizioni, quale secolo da cui prenderà corpo il mondo contemporaneo. L’arte non è più asservita al potere, ma diviene, molto spesso, essa stessa, strumento di denuncia contro il potere. Anche il rinnovamento impressionista e, in precedenza, la stessa presa di coscienza dei macchiaioli****, vanno visti sotto questa luce, poiché espressioni di una piccola e media borghesia emergente che male sopportava il legame con l’aristocrazia parassitaria, quell’aristocrazia che ebbe nell’accademia le sue più connaturate manifestazioni artistiche.
L’ottocento per l’Italia è un secolo cruciale. Unire sotto un unico regno tutte le aree geografiche della vecchia penisola, da sud a nord, non è impresa facile ed indolore, e neppure condivisa da tutti, soprattutto, a causa dell’imposizione di un re contro le aspirazioni di molti patrioti che, invece, di re e sovrani volevano cominciare a farne a meno. Non sempre i Savoia ottengono consenso; al sud, in particolare, sono le politiche repressive che accompagnano il processo di colonizzazione; fra le popolazioni di quelle zone, spesso, non si sa chi è quel re che si sostituisce, in nome dell’unità della nazione, ad altro re o principe o signore. Garibaldi è il liberatore, ma le truppe piemontesi non esiteranno ad usare la forza per dirimere i contrasti e sedare le rivolte popolari. Così è la storia, non tutto può filare diritto.
L’Italia è di fronte al nodo, ancora oggi irrisolto, della questione meridionale. Le contraddizioni vengono quotidianamente al pettine, soprattutto nelle aree dove il latifondo, i privilegi ecclesiastici, le sperequazioni sociali mantengono una loro radicata presenza. La miseria, l’indigenza, l’analfabetismo, il sopruso delle classi agiate non sono venuti a mancare con l’unificazione del Paese. La politica stenta a porre rimedio alle gravi, endemiche ingiustizie sociali. La borghesia emergente, mentre è pronta a riconoscere alcuni dei diritti universali della persona, sanciti dalla rivoluzione francese, non è, comunque, disposta ad accettare totalmente la necessità di dare compimento al riconoscimento anche dei diritti sociali. Le classi operaie e contadine, i diseredati trovano nei governi borghesi più ostacoli che non alleanze per il loro riscatto. Saranno i movimenti rivoluzionari, sorti sulla scorta delle idee socialiste, repubblicane, anarchiche, comuniste, che daranno corpo e vita all’avanzata delle classi proletarie.
Il pensiero ottocentesco, dagli utopisti massimalisti anarchici alla Proudhon (1809 - 1865), al pensiero marxista, al positivismo mitteleuropeo, al pensiero mazziniano, informerà le lotte e le trasformazioni sociali in Europa, e non solamente in Europa. Spenta nel sangue la Comune di Parigi, in Russia si sta programmando un altro terremoto che infuocherà i primi anni del XX secolo e aprirà, con la presa del potere dei soviet, un nuovo capitolo della storia europea. L’ottocento è, quindi, un secolo in continuo fermento. La cultura, la politica, le idee, tutto il campo superstrutturale è dominato da cambiamenti epocali. L’arte non poteva restare abbarbicata alle concezioni accademiche, alle visioni bucoliche, arcadiche, classiche, romantiche, in definitiva, slegate dalla realtà vera, continuare ad essere dispensatrice di sentimenti di classi dominanti in progressivo declino.
Naturalmente non è così semplice inquadrare le infinite sfaccettature di quel mondo, ma tutto ciò scritto serve a contestualizzare l’opera di un artista che, ben per questo, assurge a livelli d’elevata potenza nel campo espressivo, quale figlio del suo tempo.
Un’altra faccia di tale contestualizzazione è, invece, quella più propriamente locale. Ovvero, un artista vive, nasce e lavora in un preciso ambito ed è di quello che è espressione.
Anche quando la sua opera diviene universale o allarga i suoi orizzonti, l’uomo è sempre figlio della sua terra. Almeno fu così per molti pittori, scultori, poeti, scrittori, compositori, anche quando cavalcando gli splendori di un mondo allargato alla sfera internazionale prestavano la loro opera in altri luoghi, altre nazioni e altre culture. Dalla stagione parigina, dal realismo, all’impressionismo, all’avanguardia dei primi anni del novecento: da Courbet (1819 – 1877) a Monet (1840 – 1926) a Cézanne (1839 -1906) a Picasso (1881 – 1973) a Braque (1882 – 1963), non emergono solamente grandi personalità, ma anche grandi interpreti della società presente. Essere a Parigi poteva significare essere l’avanguardia di quei tempi, ma essere in provincia, anche la più dimenticata, per un genio dell’arte poteva, egualmente, essere all’avanguardia nella denuncia di quel mondo d’ingiustizie e di mali.
Le condizioni di vita dei più sono generalmente intollerabili in molte aree d’Italia e non solamente d’Italia. In Maremma certamente ciò è ampiamente comprovato. L’ambiente che genera mostri è un dato sociologico cui oggi abbiamo attribuito il giusto peso, e, in mezzo alle ingiustizie secolari, che perdurano copiose in quelle lande paludose, conservatrici di privilegi inenarrabili e di miserie altrettanto inenarrabili, i mostri si generano numerosi e assumono, spesso, la veste di fautori di sconvolgimenti sociali, che infrangono il decalogo degli uomini e non solamente dei padroni. Accanto alla necessità di comunicare la natura delle cose e lo stato degli uomini, nasceva la coazione a distruggere e infrangere le regole. Regole utili alle minoranze privilegiate, ma non solamente a queste. Ed ecco che nella Maremma amara di Pascucci, nasce anche Tiburzi (1836 – 1896), il brigante, emblema di tutti i fuorilegge di quell’area disperata, il bandito frutto di quel disagio.
Il decalogo è l’unica legge che il popolo riconosce come tale, le leggi del re generalmente non sono fatte per il popolo, ma il decalogo è legge universale. Il brigante infrange spesso la regola che, per tradizione, deriva agli uomini da un dio supremo, anche se, a volte, lontano dalle loro miserie. Il brigante è, in parte, il giustiziere, ma è, infine, colui che rompe lo schema, e non se ne pente, anzi lo reitera anche per sua compiacenza. Se del brigante, come faceva, a volte, Alfio Cavoli, prendiamo il volto buono, ovvero quello del ribelle e scartiamo le parti immonde dell’assassino, allora possiamo azzardare un parallelismo fra il grande pittore maremmano, interprete dei drammi e dei luoghi della sua gente ed il brigante ribelle. Il messaggio potrebbe essere lo stesso, ma sono i mezzi con cui si persegue l’obiettivo che divengono assai diversi: da un lato un grido di condanna che permane nelle menti degli uomini i quali ne traggono ammonimento; dall’altro la trasgressione che finisce in tragedia e si abbatte negativamente sulla stesso gruppo sociale che si vuole riscattare. Tuttavia, il messaggio è frutto di un atto di ribellione che diviene denuncia; così, come le parole sono pietre, l’arte di Pascucci è essa stessa una pietra potente scagliata contro il sopruso, una pietra che mette in evidenza la verità vera nascosta dietro la pelle della rappresentazione; mentre l’atto violento del brigante, che consegue, pur esso, al sopruso e all’ingiustizia, è condiviso dagli oppressi, ma solo sino a quando non diventa esso stesso messaggio di morte, di nichilismo estremo, di rottura senza speranza. Il messaggio di Tiburzi è condiviso solo sino a quando è puro atto di ribellione, ovvero quando mette in discussione i canoni che consentono il sopruso, mentre il messaggio di Pascucci è propositivo, con la denuncia apre nuove vie alla speranza; il messaggio del brigante si esaurisce nella negatività della violenza e della morte, quello del pittore nella positività della presa di coscienza.


Eroi di Maremma
Paride Pascucci, Eroi di Maremma
Nella misera stanza dell’Eroe di Maremma (1895), piange la sposa. È la sposa di un Cristo di quelle terre, espressione di tutti i cristi autentici di questo mondo di dolore. Pascucci nulla concede alla retorica, pensa all’umile morto nella miseria e a causa delle miserie umane, pensa al dolore totale della compagna: sposa e madre che schermisce il volto.
Il rigore del segno, comunica il dramma, laddove dignità, solitudine e pietà emergono dalla perfetta struttura scenica. L’artista è colui che trasmette, con sapiente sintesi fra forma e contenuto, il messaggio più vero della morte e del dolore.
Il punto di fuga è il capo con il volto nascosto della sposa affranta, capo sorretto dalla massa classica di un corpo lieve e delicato. La scena è ben piantata nella prospettiva centrale dove la linea d’orizzonte esalta il corpo inerte sollevato dal giaciglio composito. La scena familiare: il cane che disdegna di offrire il muso alla morte e si abbandona sul pavimento sconnesso e lacero della stanza, l’indigenza ovunque presente, il martirio del morto, la sposa addolorata e piangente, emerge dal profondo spessore di una pittura di sicura scuola, laddove è presente gran parte della storia dell’arte italiana: da Giotto a Masaccio, per una drammatizzazione assolutamente efficace ed estremamente vera che può gareggiare, in tale tragica lettura della condizione umana, alla pari con le tele di grandi artisti nordici contemporanei, come Munch (1863 - 1944 ), Ensor (1860 - 1949), Van Gogh (1853 - 1890), anche se Pascucci non esaspera il segno per esaltare il dolore, ma ricorre, invece, alla composizione classica, naturale retaggio della sua cultura mediterranea, arrivando, comunque, a comunicare con eguale potenza il dramma, poiché, di fronte al dolore, il mezzo espressivo è esclusivo retaggio dell’artista, del poeta, del narratore, del compositore in ogni momento, in ogni luogo ed in ogni epoca della storia umana. Nel 1895 questo dipinto entra nella scena italiana come atto esemplare d’ammonimento contro un infame destino a cui i più umili sono sottomessi, e di cui sono i martiri, sono gli eroi veri, i testimoni di una condizione umana che li fa essere eroi sacrificati sul letto malarico della miseria, sono gli eroi del proletariato, quelli che non muoiono in guerre ingiuste ed incomprensibili, ma quelli che muoiono perché vittime innocenti di una condizione umana, carica di tutte le ingiustizie del mondo; eroi, quindi, e non semplici uomini; martiri, cioè, perché testimoni umili del loro tempo e della loro ingenerosa condizione sociale.
Nel 1895 il brigante Tiburzi aveva consumato tutti i suoi delitti. Dai primi atti di ribellione, con i quali aveva saputo catturare la benevolenza della povera gente, ai più nefandi omicidi; era, in molta parte, considerato, pure esso, un eroe, un ribelle. Era protetto come si protegge un amico di cui si condivide il destino. Ma il destino di Tiburzi degenera in atti di cruda violenza ai quali, al massimo, si possono attribuire le attenuanti delle condizioni di partenza e di un ambiente ostile. Tiburzi approfitta del terrore che incute la sua presenza e ne fa uno strumento di potere, a volte anche a discapito di quelle classi sociali che, invece, pensava d’incarnare.
Infine, però, Tiburzi, con un estremo gesto di dignità, riscatta la sua vita di errori. Tiburzi sceglie il suicidio di fronte all’ignominia dell’umiliazione di una morte causata da quegli stessi nemici che sempre fronteggiò con alterigia e che, altri non sono, se non lo strumento con cui i potenti si servono per perpetuare la loro prepotenza. In questa morte, forse, si potrebbe ravvisare un altro modello di “Eroe di Maremma”, ma la forza di Pascucci è di gran lunga più alta, il suo “eroe” è senza macchia e, con la sua morte, può realmente redimere il mondo. 1895 vede la luce, per dare luce “Eroi di Maremma”. 1896 Tiburzi muore suicida sull’aia di una Maremma desolata, braccato, tradito, umiliato. Le sue spoglie verranno esposte al pubblico ludibrio e di quel cadavere si coglierà solamente il messaggio liberatorio e se ne dimenticheranno i presupposti e le ragioni.


Gli Apostoli
Paride Pascucci, Gli Apostoli
Il profondo senso d’umanità che ci proviene dalla tela dedicata agli Apostoli (1909) è sconvolgente. Pascucci racconta gli apostoli non più dalla parte dei preti, ma dalla parte dei poveri. Gli apostoli provengono dalla macchia, dalle paludi, dalla collina impervia della Maremma, sono i figli di quella terra e non i membri di una congregazione religiosa, sono il popolo che veglia; sono i bifolchi senza penna, senza nient’altro che le scarpe grosse, le barbe incolte, sono i bifolchi mondati dalla veste da chierico che, infine, è ridicola sui loro corpi tozzi e abbruttiti dalle fatiche quotidiane. In mezzo a loro c’è il brigante, c’è il pastore, il contadino, il buttero, il misero proletario, il diseredato; sono tutti quanti come il san Matteo del Caravaggio, analfabeti con i piedi sporchi, ovvero con le scarpe infangate.
Il brigante è una congerie di contraddizioni, non sempre se ne possono condividere le gesta ed il suo percorso di distruzione e di morte; tuttavia, lo stesso Pascucci ne sente la presenza: nella tela che lo consacrerà l’artista più radicato nelle viscere della sua terra, pare esaltarne la figura, così come Caravaggio esaltò la figura di Matteo dipingendolo come un mendicante, un diverso, un analfabeta, forse, esso pure, un brigante.
Tiburzi è, più che amato, temuto, la sua presenza è ancora un atto rivoluzionario nelle menti dei poveri e dei reietti, ma è un eroe negativo, la cui figura perde la consistenza dell’eroe nel momento in cui le sue gesta divengono puro atto di sfregio nei confronti, non solamente, dei potenti, ma, a volte, anche della stessa povera gente. Pascucci trasmette, invece, un messaggio forte, imperituro, che durerà nel tempo, vive fortemente la condizione dei suoi personaggi, ne trasmette la pietas, il dolore, l’umiltà, la dignità.


Eroe che ritorna
Paride Pascucci, Eroe che ritorna
L’Italia non è ancora granché cambiata, si sta preparando un’altra tragedia che, attraversando la grande guerra, sfocerà nel fascismo che, a sua volta, farà riprecipitare il Paese in una guerra ancora più rovinosa e letale, e affosserà le speranze e le vite di milioni di uomini.
Negli anni bui in cui il fascismo sta rafforzando il proprio potere negando ogni forma di democrazia, laddove l’esaltazione della guerra diviene l’arma principe della propaganda di regime, Pascucci, con l’opera dedicata all’eroe che ritorna (1924), compie un ragionato atto di disobbedienza civile negando alla guerra qualsiasi valore positivo, denunciandone pacatamente, ma con determinazione, la natura di dispensatrice di lutti, di tragedie e dolori. Pascucci racconta il risultato nefando della guerra, esalta l’umanità dei vivi che, con compostezza, onorano il corpo supino dell’eroe, e decreta il dolore della madre quale messaggio universale di tutte le madri di fronte al martirio del figlio.
Pascucci dedica questa sua tela, agli “eroi” che ritornano da tutte le guerre, ritornano sul letto di morte al cospetto delle loro madri e al cospetto di attoniti e rassegnati parenti, amici, compaesani. Pascucci compie un atto d’accusa contro la guerra, in un periodo della storia d’Italia in cui, tali esternazioni costituiscono una forte, chiara, assoluta, coraggiosa protesta.


Il Venerdì Santo
Paride Pascucci, Il Venerdì Santo
Qualche anno dopo, con “ Il Venerdì Santo” (1929), Pascucci ci fa ripercorrere i medesimi sentimenti di fronte al sacrificio della morte. Ancora un povero Cristo supino, circondato dal dolore e dall’affetto. Il dolore di una madre attonita e rassegnata. La donna del Pascucci è un volume lieve e delicato; non è la prefica della tragedia greca che, invece, si strazia platealmente. Nelle madri e spose del Pascucci si coglie sempre la classicità dei volumi delle figure femminili.
Delle altre figure presenti nella scena si percepisce la rassegnata pacatezza: un’iconostasi con il saio bianco dietro il Cristo morto è il solo richiamo alla sacralità dell’evento; tutto il resto è parte della quotidianità contadina. Alla maniera dei pittori del seicento, il Pascucci denuncia il dramma della condizione umana, servendosi amabilmente della rappresentazione sacra.

Uno degli ultimi briganti di Maremma vissuti nel XIX secolo, Luciano Fioravanti (1857 - 1900), il fedele gregario di Tiburzi, muore nel 1900. Agli inizi del XX secolo si profila una nuova versione del brigantaggio, non più romantica, trasgressiva e, in parte, rivoluzionaria. Quella tipologia di brigante lascerà gradualmente il posto alla delinquenza organizzata.
Nel 1929 i briganti sono al governo (Mussolini - nel 1924 - s’era macchiato del delitto Matteotti, i suoi seguaci avevano già compiuto molte nefandezze e gesta omicide in ogni dove per imporre la dittatura del capo). Non sono più i leggendari, ambigui figuri che riempivano le cronache e i racconti di un mondo contadino di miserie e d’ingiustizie; sono gli uomini potenti che hanno trovato, come spesso accade, efficace rappresentanza nella politica.
Con la sconfitta del fascismo e la rinascita costituzionale, l’Italia riprenderà il cammino verso la democrazia, e, nel frattempo, tante cose cambieranno. Di fronte all’Italia moderna anche i pittori si rinnovano; la cultura abbraccia altre poetiche; l’avanzata tecnologica, lo sviluppo industriale che, con voracità, richiede forza lavoro a basso costo per competere con il mercato europeo causando la spogliazione umana del sud, agiranno da volano per modificare profondamente la natura delle cose nella Penisola.

Dopo “la siesta” del 1939 e “la baldoria” dell’anno successivo, la forza del segno di Pascucci si ritrae, sempre più sconsolata, di fronte ad un mondo che non è più degno della sua comprensione, ma la sua forza comunicativa resta e travalica i tempi.
Pascucci muore nel 1954, la guerra è passata, il nuovo mondo si profila con una rapidità impensabile e la sua arte, non sempre a ragione, verrà associata ad una corrente artistica (i macchiaioli) che ha già fatto il suo tempo, a capo di quella corrente furono ottimi pittori, la cui poetica è, tuttavia, riferibile a luoghi ormai lontani, per di più “i macchiaioli” furono, prevalentemente, di estrazione altra dal Pascucci: furono d’estrazione borghese come il Fattori (1825 - 1908) o il Lega (1826 - 1895) o il Signorini (1835 - 1901), la loro scuola si esaurì, generalmente, nel racconto di una società crepuscolare che, di lì a poco, conchiuderà il suo cammino nella provincia italiana. Si trattò di un’arte molto importante, ma non sempre di valore universale (senza tempo e spazio). L’opera del Pascucci è, invece, universale, perché universale è l’assunto etico del suo intrinseco ammonimento. Dalle tele più significative del Pascucci è il contenuto ecumenico della pietas che emerge prepotente.
L’arte del Pascucci somiglia ad un racconto evangelico che travalica il tempo, così come quello del Goya (1746 - 1828) della “fucilazione” o del Van Gogh dei “mangiatori di patate”, o del Picasso di “Guernica”, o del Caravaggio del “san Matteo”, per l’appunto.

Novembre 2011


Note
*Tratto da: Scuola Secondaria Superiore (edizione e cura), «Annuario XXXVIII, Anno Scolastico 2010-2011, Scuola Secondaria Superiore della Repubblica di San Marino»; grafica e impaginazione 3 Studio, Serravalle, RSM; stampa Arti grafiche della Balda, Acquaviva, RSM, 2012
**[ndc]Alfio Cavoli è deceduto a Roma il 30 settembre 2008. La sua tomba, progettata da Leo Marino Morganti, si trova nel cimitero di Manciano (GR). Hanno contribuito alla realizzazione dei disegni Luca Morganti e Lazzaro Rossini. Rossano Rossi e Fabio Ferrarini hanno realizzato le parti in metallo. Claudio Laghi quelle in pietra. Alessandro Barzagli le opere in muratura.
***Alfio Cavoli scrittore, poeta, giornalista, critico d’arte, ricercatore, storico, nasce a Manciano nel 1927 dove morirà nel 2008. La sua vita è dedicata allo studio, all’esaltazione dei valori e delle tradizioni culturali della Maremma. La sua produzione letteraria conta articoli, saggi, decine di pubblicazioni fra cui più di una sessantina di libri. La sua scrittura è fluida, il suo lessico accessibile e colto allo stesso tempo. Uomo con uno spiccato senso di giustizia, ma, invero, assai schivo e modesto, è ricordato fra quei cittadini che con il loro rigore fanno bella l’Italia (“Venerdì di Repubblica” 4 dicembre 1992, pag. 74).
Per la bibliografia si veda il compendio ragionato: D. Cavoli (a cura di), Alfio Cavoli, Manciano 2009, che la figlia Daniela ha recentemente curato per conto dell’Associazione Culturale Alfio Cavoli con sede in Via Roma, 42 58014 Manciano GR – www.alfiocavoli.it - info@alfiocavoli.it
****Gli ideali risorgimentali unirono artisti da Napoli a Firenze a Torino, fra questi, in particolare, i macchiaioli. Il neoclassicismo venne, progressivamente, bandito. Furono tanti i giovani pittori, coinvolti nei moti rivoluzionari dell’ottocento, che proclamarono la nuova teoria della pittura a macchia quale “nuova ricerca di verismo”.