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In
ricordo di Alfio Cavoli*
di Leo Marino Morganti
(Architetto, Presidente della Commissione per la
Conservazione dei Monumenti, degli Oggetti
d’Antichità ed Arte della Repubblica di San
Marino, Commissario Nazionale per l’Arte e
l’Architettura alla Biennale Venezia, Membro del
Comitato Scientifico del Centro Sammarinese di
Studi Storici) |
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o progettato la tomba**
di Alfio Cavoli***, uno
dei più prolifici scrittori di Maremma. Egli amava
profondamente la sua terra. Ne amava le tradizioni, la
lingua, la cultura, l’arte, le tragedie, la miseria, la
nobiltà. Scrisse d’arte, archeologia, storia e raccontò le
vite dei disperati di quella terra: i briganti assassini,
vittime e carnefici. La tomba è quella di uno scrittore: una
libreria in metallo consunto dal tempo nei cui ripiani
giacciono libri di pietra: i libri “vanno e vengono” dalla
sepoltura laddove Alfio legge e scrive ancora, come fa lo
scrittore anche dopo la morte.
Ora, a ricordo di Alfio, profondamente legato al nostro
Paese ove pubblicò alcuni dei suoi libri e ove trovò la
compagna che lo seguì nel suo percorso terreno, vorrei
lasciare questi appunti al fine di mettere nella giusta luce
il grande pittore Paride Pascucci, figlio di quella Maremma
che diede i natali anche al brigante Domenico Tiburzi; due
personaggi e due personalità intorno alle quali Alfio
dissertò amabilmente lasciandoci pagine di grande spessore e
umanità.
Quattro opere di Paride Pascucci nel panorama storico
della Maremma di fine Ottocento e primi Novecento alle
prese con ingiustizie sociali e briganti
Paride Pascucci (1866 – 1954), uno dei massimi
artisti italiani, nacque a Manciano nel secolo delle
rivoluzioni borghesi. Passata la furia francese e la meteora
napoleonica, il 1815 parrebbe consacrare un ritorno
all’ancien régime; ma, ormai, le cose sono cambiate,
nonostante il congresso di Vienna, la rivoluzione riprende
il suo cammino ed i principi che ne costituiscono l’elemento
propulsore, attraversati i moti ottocenteschi, pur se
pesantemente umiliati con la fine della Comune, trovano,
tuttavia, sempre nuove gambe per camminare. Il filo
conduttore, che da secoli legava la produzione artistica ad
un unico modello rappresentativo, era stato reciso. Gli
artisti, i letterati, i poeti diverranno interpreti di un
diverso modo di concepire l’arte e saranno sempre più figli
di un mondo in evoluzione che sancirà la definitiva rottura
con il passato. Già, qualche secolo prima, pittori come
Caravaggio (1571 – 1610) furono fautori di una poderosa
scossa innovatrice che sconvolse la visione univoca della
rappresentazione sacra spezzandone le catene che
l’assoggettavano ad una concezione esclusivamente
trascendente e mitologica.
In Cosa può un corpo? Lezioni su Spinosa (Prefazione a cura
di Aldo Pardi, Napoli, 2010) Gilles Deleuze (1925-1995),
citando Bergson (1859 – 1941), scrive che “L’artista è colui
che - [...] - muta i limiti in opportunità. [...]. I pittori
si servivano di Dio per liberare le forme, per spingerle
molto oltre la semplice illustrazione, [...]”. Ovvero, gli
artisti trasmettevano, celata dietro la narrazione sacra, la
vera condizione umana.
Il san Matteo e l’angelo, la
tela perduta nel 1945, dipinta dal Merisi nel 1601,
costituirà uno dei prodromi più amati dal realismo
ottocentesco. L’ottocento va letto, con tutte le sue
contraddizioni, quale secolo da cui prenderà corpo il mondo
contemporaneo. L’arte non è più asservita al potere, ma
diviene, molto spesso, essa stessa, strumento di denuncia
contro il potere. Anche il rinnovamento impressionista e, in
precedenza, la stessa presa di coscienza dei macchiaioli****, vanno visti sotto questa luce,
poiché espressioni di una piccola e media borghesia
emergente che male sopportava il legame con l’aristocrazia
parassitaria, quell’aristocrazia che ebbe nell’accademia le
sue più connaturate manifestazioni artistiche.
L’ottocento per l’Italia è un secolo cruciale. Unire sotto
un unico regno tutte le aree geografiche della vecchia
penisola, da sud a nord, non è impresa facile ed indolore, e
neppure condivisa da tutti, soprattutto, a causa
dell’imposizione di un re contro le aspirazioni di molti
patrioti che, invece, di re e sovrani volevano cominciare a
farne a meno. Non sempre i Savoia ottengono consenso; al
sud, in particolare, sono le politiche repressive che
accompagnano il processo di colonizzazione; fra le
popolazioni di quelle zone, spesso, non si sa chi è quel re
che si sostituisce, in nome dell’unità della nazione, ad
altro re o principe o signore. Garibaldi è il liberatore, ma
le truppe piemontesi non esiteranno ad usare la forza per
dirimere i contrasti e sedare le rivolte popolari. Così è la
storia, non tutto può filare diritto.
L’Italia è di fronte al nodo, ancora oggi irrisolto, della
questione meridionale. Le contraddizioni vengono
quotidianamente al pettine, soprattutto nelle aree dove il
latifondo, i privilegi ecclesiastici, le sperequazioni
sociali mantengono una loro radicata presenza. La miseria,
l’indigenza, l’analfabetismo, il sopruso delle classi agiate
non sono venuti a mancare con l’unificazione del Paese. La
politica stenta a porre rimedio alle gravi, endemiche
ingiustizie sociali. La borghesia emergente, mentre è pronta
a riconoscere alcuni dei diritti universali della persona,
sanciti dalla rivoluzione francese, non è, comunque,
disposta ad accettare totalmente la necessità di dare
compimento al riconoscimento anche dei diritti sociali. Le
classi operaie e contadine, i diseredati trovano nei governi
borghesi più ostacoli che non alleanze per il loro riscatto.
Saranno i movimenti rivoluzionari, sorti sulla scorta delle
idee socialiste, repubblicane, anarchiche, comuniste, che
daranno corpo e vita all’avanzata delle classi proletarie.
Il pensiero ottocentesco, dagli utopisti massimalisti
anarchici alla Proudhon (1809 - 1865), al pensiero marxista,
al positivismo mitteleuropeo, al pensiero mazziniano,
informerà le lotte e le trasformazioni sociali in Europa, e
non solamente in Europa. Spenta nel sangue la Comune di
Parigi, in Russia si sta programmando un altro terremoto che
infuocherà i primi anni del XX secolo e aprirà, con la presa
del potere dei soviet, un nuovo capitolo della storia
europea. L’ottocento è, quindi, un secolo in continuo
fermento. La cultura, la politica, le idee, tutto il campo
superstrutturale è dominato da cambiamenti epocali. L’arte
non poteva restare abbarbicata alle concezioni accademiche,
alle visioni bucoliche, arcadiche, classiche, romantiche, in
definitiva, slegate dalla realtà vera, continuare ad essere
dispensatrice di sentimenti di classi dominanti in
progressivo declino.
Naturalmente non è così semplice inquadrare le infinite
sfaccettature di quel mondo, ma tutto ciò scritto serve a
contestualizzare l’opera di un artista che, ben per questo,
assurge a livelli d’elevata potenza nel campo espressivo,
quale figlio del suo tempo.
Un’altra faccia di tale contestualizzazione è, invece,
quella più propriamente locale. Ovvero, un artista vive,
nasce e lavora in un preciso ambito ed è di quello che è
espressione.
Anche quando la sua opera diviene universale o allarga i
suoi orizzonti, l’uomo è sempre figlio della sua terra.
Almeno fu così per molti pittori, scultori, poeti,
scrittori, compositori, anche quando cavalcando gli
splendori di un mondo allargato alla sfera internazionale
prestavano la loro opera in altri luoghi, altre nazioni e
altre culture. Dalla stagione parigina, dal realismo,
all’impressionismo, all’avanguardia dei primi anni del
novecento: da Courbet (1819 – 1877) a Monet (1840 – 1926) a
Cézanne (1839 -1906) a Picasso (1881 – 1973) a Braque (1882
– 1963), non emergono solamente grandi personalità, ma anche
grandi interpreti della società presente. Essere a Parigi
poteva significare essere l’avanguardia di quei tempi, ma
essere in provincia, anche la più dimenticata, per un genio
dell’arte poteva, egualmente, essere all’avanguardia nella
denuncia di quel mondo d’ingiustizie e di mali.
Le condizioni di vita dei più sono generalmente
intollerabili in molte aree d’Italia e non solamente
d’Italia. In Maremma certamente ciò è ampiamente comprovato.
L’ambiente che genera mostri è un dato sociologico cui oggi
abbiamo attribuito il giusto peso, e, in mezzo alle
ingiustizie secolari, che perdurano copiose in quelle lande
paludose, conservatrici di privilegi inenarrabili e di
miserie altrettanto inenarrabili, i mostri si generano
numerosi e assumono, spesso, la veste di fautori di
sconvolgimenti sociali, che infrangono il decalogo degli
uomini e non solamente dei padroni. Accanto alla necessità
di comunicare la natura delle cose e lo stato degli uomini,
nasceva la coazione a distruggere e infrangere le regole.
Regole utili alle minoranze privilegiate, ma non solamente a
queste. Ed ecco che nella Maremma amara di Pascucci, nasce
anche Tiburzi (1836 – 1896), il brigante, emblema di tutti i
fuorilegge di quell’area disperata, il bandito frutto di
quel disagio.
Il decalogo è l’unica legge che il popolo riconosce come
tale, le leggi del re generalmente non sono fatte per il
popolo, ma il decalogo è legge universale. Il brigante
infrange spesso la regola che, per tradizione, deriva agli
uomini da un dio supremo, anche se, a volte, lontano dalle
loro miserie. Il brigante è, in parte, il giustiziere, ma è,
infine, colui che rompe lo schema, e non se ne pente, anzi
lo reitera anche per sua compiacenza. Se del brigante, come
faceva, a volte, Alfio Cavoli, prendiamo il volto buono,
ovvero quello del ribelle e scartiamo le parti immonde
dell’assassino, allora possiamo azzardare un parallelismo
fra il grande pittore maremmano, interprete dei drammi e dei
luoghi della sua gente ed il brigante ribelle. Il messaggio
potrebbe essere lo stesso, ma sono i mezzi con cui si
persegue l’obiettivo che divengono assai diversi: da un lato
un grido di condanna che permane nelle menti degli uomini i
quali ne traggono ammonimento; dall’altro la trasgressione
che finisce in tragedia e si abbatte negativamente sulla
stesso gruppo sociale che si vuole riscattare. Tuttavia, il
messaggio è frutto di un atto di ribellione che diviene
denuncia; così, come le parole sono pietre, l’arte di
Pascucci è essa stessa una pietra potente scagliata contro
il sopruso, una pietra che mette in evidenza la verità vera
nascosta dietro la pelle della rappresentazione; mentre
l’atto violento del brigante, che consegue, pur esso, al
sopruso e all’ingiustizia, è condiviso dagli oppressi, ma
solo sino a quando non diventa esso stesso messaggio di
morte, di nichilismo estremo, di rottura senza speranza. Il
messaggio di Tiburzi è condiviso solo sino a quando è puro
atto di ribellione, ovvero quando mette in discussione i
canoni che consentono il sopruso, mentre il messaggio di
Pascucci è propositivo, con la denuncia apre nuove vie alla
speranza; il messaggio del brigante si esaurisce nella
negatività della violenza e della morte, quello del pittore
nella positività della presa di coscienza.
Eroi di Maremma
Nella misera stanza dell’Eroe di Maremma (1895), piange la
sposa. È la sposa di un Cristo di quelle terre, espressione
di tutti i cristi autentici di questo mondo di dolore.
Pascucci nulla concede alla retorica, pensa all’umile morto
nella miseria e a causa delle miserie umane, pensa al dolore
totale della compagna: sposa e madre che schermisce il
volto.
Il rigore del segno, comunica il dramma, laddove dignità,
solitudine e pietà emergono dalla perfetta struttura
scenica. L’artista è colui che trasmette, con sapiente
sintesi fra forma e contenuto, il messaggio più vero della
morte e del dolore.
Il punto di fuga è il capo con il volto nascosto della sposa
affranta, capo sorretto dalla massa classica di un corpo
lieve e delicato. La scena è ben piantata nella prospettiva
centrale dove la linea d’orizzonte esalta il corpo inerte
sollevato dal giaciglio composito. La scena familiare: il
cane che disdegna di offrire il muso alla morte e si
abbandona sul pavimento sconnesso e lacero della stanza,
l’indigenza ovunque presente, il martirio del morto, la
sposa addolorata e piangente, emerge dal profondo spessore
di una pittura di sicura scuola, laddove è presente gran
parte della storia dell’arte italiana: da Giotto a Masaccio,
per una drammatizzazione assolutamente efficace ed
estremamente vera che può gareggiare, in tale tragica
lettura della condizione umana, alla pari con le tele di
grandi artisti nordici contemporanei, come Munch (1863 -
1944 ), Ensor (1860 - 1949), Van Gogh (1853 - 1890), anche
se Pascucci non esaspera il segno per esaltare il dolore, ma
ricorre, invece, alla composizione classica, naturale
retaggio della sua cultura mediterranea, arrivando,
comunque, a comunicare con eguale potenza il dramma, poiché,
di fronte al dolore, il mezzo espressivo è esclusivo
retaggio dell’artista, del poeta, del narratore, del
compositore in ogni momento, in ogni luogo ed in ogni epoca
della storia umana. Nel 1895 questo dipinto entra nella
scena italiana come atto esemplare d’ammonimento contro un
infame destino a cui i più umili sono sottomessi, e di cui
sono i martiri, sono gli eroi veri, i testimoni di una
condizione umana che li fa essere eroi sacrificati sul letto
malarico della miseria, sono gli eroi del proletariato,
quelli che non muoiono in guerre ingiuste ed
incomprensibili, ma quelli che muoiono perché vittime
innocenti di una condizione umana, carica di tutte le
ingiustizie del mondo; eroi, quindi, e non semplici uomini;
martiri, cioè, perché testimoni umili del loro tempo e della
loro ingenerosa condizione sociale.
Nel 1895 il brigante Tiburzi aveva consumato tutti i suoi
delitti. Dai primi atti di ribellione, con i quali aveva
saputo catturare la benevolenza della povera gente, ai più
nefandi omicidi; era, in molta parte, considerato, pure
esso, un eroe, un ribelle. Era protetto come si protegge un
amico di cui si condivide il destino. Ma il destino di
Tiburzi degenera in atti di cruda violenza ai quali, al
massimo, si possono attribuire le attenuanti delle
condizioni di partenza e di un ambiente ostile. Tiburzi
approfitta del terrore che incute la sua presenza e ne fa
uno strumento di potere, a volte anche a discapito di quelle
classi sociali che, invece, pensava d’incarnare.
Infine, però, Tiburzi, con un estremo gesto di dignità,
riscatta la sua vita di errori. Tiburzi sceglie il suicidio
di fronte all’ignominia dell’umiliazione di una morte
causata da quegli stessi nemici che sempre fronteggiò con
alterigia e che, altri non sono, se non lo strumento con cui
i potenti si servono per perpetuare la loro prepotenza. In
questa morte, forse, si potrebbe ravvisare un altro modello
di “Eroe di Maremma”, ma la forza di Pascucci è di gran
lunga più alta, il suo “eroe” è senza macchia e, con la sua
morte, può realmente redimere il mondo. 1895 vede la luce,
per dare luce “Eroi di Maremma”. 1896 Tiburzi muore suicida
sull’aia di una Maremma desolata, braccato, tradito,
umiliato. Le sue spoglie verranno esposte al pubblico
ludibrio e di quel cadavere si coglierà solamente il
messaggio liberatorio e se ne dimenticheranno i presupposti
e le ragioni.
Gli Apostoli
Il profondo senso d’umanità che ci proviene dalla tela
dedicata agli Apostoli (1909) è sconvolgente. Pascucci
racconta gli apostoli non più dalla parte dei preti, ma
dalla parte dei poveri. Gli apostoli provengono dalla
macchia, dalle paludi, dalla collina impervia della Maremma,
sono i figli di quella terra e non i membri di una
congregazione religiosa, sono il popolo che veglia; sono i
bifolchi senza penna, senza nient’altro che le scarpe
grosse, le barbe incolte, sono i bifolchi mondati dalla
veste da chierico che, infine, è ridicola sui loro corpi
tozzi e abbruttiti dalle fatiche quotidiane. In mezzo a loro
c’è il brigante, c’è il pastore, il contadino, il buttero,
il misero proletario, il diseredato; sono tutti quanti come
il san Matteo del Caravaggio, analfabeti con i piedi
sporchi, ovvero con le scarpe infangate.
Il brigante è una congerie di contraddizioni, non sempre se
ne possono condividere le gesta ed il suo percorso di
distruzione e di morte; tuttavia, lo stesso Pascucci ne
sente la presenza: nella tela che lo consacrerà l’artista
più radicato nelle viscere della sua terra, pare esaltarne
la figura, così come Caravaggio esaltò la figura di Matteo
dipingendolo come un mendicante, un diverso, un analfabeta,
forse, esso pure, un brigante.
Tiburzi è, più che amato, temuto, la sua presenza è ancora
un atto rivoluzionario nelle menti dei poveri e dei reietti,
ma è un eroe negativo, la cui figura perde la consistenza
dell’eroe nel momento in cui le sue gesta divengono puro
atto di sfregio nei confronti, non solamente, dei potenti,
ma, a volte, anche della stessa povera gente. Pascucci
trasmette, invece, un messaggio forte, imperituro, che
durerà nel tempo, vive fortemente la condizione dei suoi
personaggi, ne trasmette la pietas, il dolore, l’umiltà, la
dignità.
Eroe che ritorna
L’Italia non è ancora granché cambiata, si sta preparando
un’altra tragedia che, attraversando la grande guerra,
sfocerà nel fascismo che, a sua volta, farà riprecipitare il
Paese in una guerra ancora più rovinosa e letale, e
affosserà le speranze e le vite di milioni di uomini.
Negli anni bui in cui il fascismo sta rafforzando il proprio
potere negando ogni forma di democrazia, laddove
l’esaltazione della guerra diviene l’arma principe della
propaganda di regime, Pascucci, con l’opera dedicata
all’eroe che ritorna (1924), compie un ragionato atto di
disobbedienza civile negando alla guerra qualsiasi valore
positivo, denunciandone pacatamente, ma con determinazione,
la natura di dispensatrice di lutti, di tragedie e dolori.
Pascucci racconta il risultato nefando della guerra, esalta
l’umanità dei vivi che, con compostezza, onorano il corpo
supino dell’eroe, e decreta il dolore della madre quale
messaggio universale di tutte le madri di fronte al martirio
del figlio.
Pascucci dedica questa sua tela, agli “eroi” che ritornano
da tutte le guerre, ritornano sul letto di morte al cospetto
delle loro madri e al cospetto di attoniti e rassegnati
parenti, amici, compaesani. Pascucci compie un atto d’accusa
contro la guerra, in un periodo della storia d’Italia in
cui, tali esternazioni costituiscono una forte, chiara,
assoluta, coraggiosa protesta.
Il Venerdì Santo
Qualche anno dopo, con “ Il Venerdì Santo” (1929), Pascucci
ci fa ripercorrere i medesimi sentimenti di fronte al
sacrificio della morte. Ancora un povero Cristo supino,
circondato dal dolore e dall’affetto. Il dolore di una madre
attonita e rassegnata. La donna del Pascucci è un volume
lieve e delicato; non è la prefica della tragedia greca che,
invece, si strazia platealmente. Nelle madri e spose del
Pascucci si coglie sempre la classicità dei volumi delle
figure femminili.
Delle altre figure presenti nella scena si percepisce la
rassegnata pacatezza: un’iconostasi con il saio bianco
dietro il Cristo morto è il solo richiamo alla sacralità
dell’evento; tutto il resto è parte della quotidianità
contadina. Alla maniera dei pittori del seicento, il
Pascucci denuncia il dramma della condizione umana,
servendosi amabilmente della rappresentazione sacra.
Uno degli ultimi briganti di Maremma vissuti nel XIX secolo,
Luciano Fioravanti (1857 - 1900), il fedele gregario di
Tiburzi, muore nel 1900. Agli inizi del XX secolo si profila
una nuova versione del brigantaggio, non più romantica,
trasgressiva e, in parte, rivoluzionaria. Quella tipologia
di brigante lascerà gradualmente il posto alla delinquenza
organizzata.
Nel 1929 i briganti sono al governo (Mussolini - nel 1924 -
s’era macchiato del delitto Matteotti, i suoi seguaci
avevano già compiuto molte nefandezze e gesta omicide in
ogni dove per imporre la dittatura del capo). Non sono più i
leggendari, ambigui figuri che riempivano le cronache e i
racconti di un mondo contadino di miserie e d’ingiustizie;
sono gli uomini potenti che hanno trovato, come spesso
accade, efficace rappresentanza nella politica.
Con la sconfitta del fascismo e la rinascita costituzionale,
l’Italia riprenderà il cammino verso la democrazia, e, nel
frattempo, tante cose cambieranno. Di fronte all’Italia
moderna anche i pittori si rinnovano; la cultura abbraccia
altre poetiche; l’avanzata tecnologica, lo sviluppo
industriale che, con voracità, richiede forza lavoro a basso
costo per competere con il mercato europeo causando la
spogliazione umana del sud, agiranno da volano per
modificare profondamente la natura delle cose nella
Penisola.
Dopo “la siesta” del 1939 e “la baldoria” dell’anno
successivo, la forza del segno di Pascucci si ritrae, sempre
più sconsolata, di fronte ad un mondo che non è più degno
della sua comprensione, ma la sua forza comunicativa resta e
travalica i tempi.
Pascucci muore nel 1954, la guerra è passata, il nuovo mondo
si profila con una rapidità impensabile e la sua arte, non
sempre a ragione, verrà associata ad una corrente artistica
(i macchiaioli) che ha già fatto il suo tempo, a capo di
quella corrente furono ottimi pittori, la cui poetica è,
tuttavia, riferibile a luoghi ormai lontani, per di più “i
macchiaioli” furono, prevalentemente, di estrazione altra
dal Pascucci: furono d’estrazione borghese come il Fattori
(1825 - 1908) o il Lega (1826 - 1895) o il Signorini (1835 -
1901), la loro scuola si esaurì, generalmente, nel racconto
di una società crepuscolare che, di lì a poco, conchiuderà
il suo cammino nella provincia italiana. Si trattò di
un’arte molto importante, ma non sempre di valore universale
(senza tempo e spazio). L’opera del Pascucci è, invece,
universale, perché universale è l’assunto etico del suo
intrinseco ammonimento. Dalle tele più significative del
Pascucci è il contenuto ecumenico della pietas che emerge
prepotente.
L’arte del Pascucci somiglia ad un racconto evangelico che
travalica il tempo, così come quello del Goya (1746 - 1828)
della “fucilazione” o del Van Gogh dei “mangiatori di
patate”, o del Picasso di “Guernica”, o del Caravaggio del
“san Matteo”, per l’appunto.
Novembre 2011
Note
*Tratto
da: Scuola Secondaria Superiore (edizione e cura), «Annuario XXXVIII, Anno Scolastico
2010-2011, Scuola Secondaria Superiore della
Repubblica di San Marino»; grafica e impaginazione 3
Studio, Serravalle, RSM; stampa Arti grafiche della Balda,
Acquaviva, RSM, 2012
**[ndc]Alfio
Cavoli è deceduto a Roma il 30 settembre 2008. La sua
tomba, progettata da Leo Marino Morganti, si trova nel
cimitero di Manciano (GR). Hanno contribuito alla
realizzazione dei disegni Luca Morganti e Lazzaro
Rossini. Rossano Rossi e Fabio Ferrarini hanno
realizzato le parti in metallo. Claudio Laghi quelle in
pietra. Alessandro Barzagli le opere in muratura.
***Alfio
Cavoli scrittore, poeta, giornalista, critico d’arte,
ricercatore, storico, nasce a Manciano nel 1927 dove
morirà nel 2008. La sua vita è dedicata allo studio,
all’esaltazione dei valori e delle tradizioni culturali
della Maremma. La sua produzione letteraria conta
articoli, saggi, decine di pubblicazioni fra cui più di
una sessantina di libri. La sua scrittura è fluida, il suo
lessico accessibile e colto allo stesso tempo. Uomo con
uno spiccato senso di giustizia, ma, invero, assai schivo
e modesto, è ricordato fra quei cittadini che con il loro
rigore fanno bella l’Italia (“Venerdì di Repubblica” 4
dicembre 1992, pag. 74).
Per la bibliografia si veda
il compendio ragionato: D. Cavoli (a cura di), Alfio
Cavoli, Manciano 2009, che la figlia Daniela ha
recentemente curato per conto dell’Associazione Culturale
Alfio Cavoli con sede in Via Roma, 42 58014 Manciano GR –
www.alfiocavoli.it
- info@alfiocavoli.it
****Gli
ideali risorgimentali unirono artisti da Napoli a Firenze
a Torino, fra questi, in particolare, i macchiaioli. Il
neoclassicismo venne, progressivamente, bandito. Furono
tanti i giovani pittori, coinvolti nei moti rivoluzionari
dell’ottocento, che proclamarono la nuova teoria della
pittura a macchia quale “nuova ricerca di verismo”.
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